Due artisti che si incontrano di nuovo a distanza di dodici anni (un tempo che, considerando la velocità di consumo della musica di oggi, è qualcosa di più che un’era geologica) dopo aver prodotto (Parish) e costruito (Harvey) molta della storia della musica alternative degli ultimi anni.
Un nuovo album agli antipodi del suo predecessore: pulito dove l’altro era sporco, sentito almeno quanto l’altro sembrava esercizio di stile, conosciuto ed apprezzato almeno quanto l’altro era passato sotto silenzio.
Un posto come l’Auditorium di Milano: acustica perfetta, certo, ma anche le sedie. Strano un concerto di PJ seduti, ma da “White Chalk” in poi sembra essere la nuova parola d’ordine.
Smessi i vestitini attillati e i tacchi a spillo rosa fluo, PJ sale sul palco con un sobrio vestitino ottocentesco e i piedi scalzi, accompagnata da Parish e altri tre ottimi musicisti in vestito e cappello da gangster.
Attaccano, prevedibilmente, con “Black Hearted Love”, primo singolo di “A Woman A Man Walked By”. Stupiscono da subito l’affiatamento della band, composta da ottimi solisti, e la voce di PJ, ormai molto lontana da quella dei primi anni, arricchita di spessore e precisione, che taglia come una lama lo spazio fra il palco e le nostre orecchie, nelle quali sembra stia urlando, o sussurrando, ad un centimetro di distanza.
“Sixteen, Fifteeen, Fourteen” ci fa pensare ad una scaletta che ripercorrerà per filo e per segno la nuova tracklist, ma la successiva “Rope Bridge Crossing” irrompe, insieme a “Urn With Dead Flowers In A Drained Pool” e “Civil war Correspondant”, a ricordarci di “Dance Hall At Louse Point”, stupendo e mai abbastanza riconosciuto, forse perché troppo difficile da digerire. E’ però
impossibile non avvertire lo scorrere del tempo su questi vecchi pezzi, così ricoperti dalla patina di polvere riconoscibilissima dell’alternative degli anni novanta da risultare spesso datati, prima fra tutte, purtroppo, la violenta perla di “Taut”.
Arrivati a metà concerto la scaletta si è ormai delineata come un alternanza fra le dinamiche violente di pezzi come “A Woman A Man Walked By” e la dolcezza di “The Soldier” e “Leaving California”, forse i pezzi meglio eseguiti della serata .
Dopo il commovente art-rock di “Cracks In The Canvas” il concerto potrebbe benissimo chiudersi, ma la band decide di svegliarci con la tribale “Pig will Not”, che, live, diventa un incrocio fra un pezzo di Patti Smith e uno degli Stooges. PJ urla, chiama a gran voce e declama come se avesse ancora vent’anni, come fosse la sua prima volta sul palco di un piccolo club a suonare per una ventina di aficionados. Poi la magia si rompe, la canzone finisce e lei ringrazia e se ne va, lasciandoci fin troppo scossi e sorpresi per la brevità del concerto.
Il bis vede John Parish avvicinarsi finalmente al microfono e cantare “False Fire”, B-Side di “Black Hearted Love”, e PJ intonare “April”, una delle più attese insieme a “That Was My Veil”, il singolo di traino di “Dance Hall At Louse Point”, più volte richiesta ma non eseguita. Ovazione, quindi, mentre lei, praticamente incollata al microfono, ci incanta con una voce stupenda, fino a sembrare filtrata attraverso un grammofono.
Siamo tutti in prima fila, per la fine del concerto, tutti sotto il palco, anche chi era in galleria, quando lei si lascia sfuggire un “Pensavo che lo avreste fatto prima”.
Effettivamente, sotto al palco, la resa è proprio un’altra cosa.
Basta sedie, la prossima volta, PJ.
Francesca Stella Riva