Jon Spencer a Bologna è realmente una Blues Explosion. Le pareti di un Locomotiv pieno zeppo di gente, giovedì 10 marzo 2016 hanno tremato sotto il fuoco di fila delle due chitarre (Judah Bauer è molto di più che una spalla) della batteria sferragliante di Russell Timmins e della voce da shouter del leader. Un wall of sound impressionante, fin dalle prime battute. Un blues ruvido, secco e pieno di sesso, sporco e porco quanto si conviene.
Prima dell’ act principale è stata Elli de Mon a scaldare gli animi dei presenti. Chitarre vintage (dobro e National), voce pastosa alla Bonnie Raitt, lezione di Robert Johnson e Son House ben in testa, la ragazza si agita a dovere, battendosi il tempo con la cassa della batteria. È un blues paludoso ed eccitante, su testi propri e per questo ancora più apprezzabile. Ad un certo punto estrae perfino un sitar, “per una pausa lenta”, ma dovrà rinfoderarlo per problemi tecnici. Peccato Elli, alla prossima.
Quando arriva sul palco la JSBX, è come se una tempesta elettrica si abbattesse sul Locomotiv. I due usano le chitarre come fossero corpi contundenti, menano sciabolate a destra e manca, mentre Timmins batte implacabile il tempo.Tutta l’attenzione è su Spencer, in formissima, magro e scattante, con la voce di vetro e le corde veloci, celebrante del sacro rito del rock and roll. Non c’è un attimo di pausa. I tre mitragliano la folla con sventagliate di hard blues, punk anfetaminico, riff assassini con citazioni di Hendrix e Led Zeppelin, mentre sullo schermo dietro di loro scorrono immagini di licantropi, vampiri, scheletri danzanti e mostri della laguna nera, riti voodoo e spezzoni di vecchi musical. Ciò aggiunge potere suggestivo, se ce ne fosse bisogno, ad una musica dalle radici antiche, che scuote le ossa e l’anima.
Si balla dall’ inizio alla fine, muovendo il corpo, come in villaggio tribale. Ma sono molti i sorrisi stampati sui volti, soprattutto delle ragazze che, come dice la vecchia canzone, “capiscono tutto”. Nella seconda parte il concerto vira sul Funk, con spruzzate di Hip Hop metallico (anche qui, i rapper non hanno inventato niente, il talking blues è degli anni ’40), come nell’ultimo album “Freedom Tower“. La musica di Spencer non è particolarmente innovativa, mixa influenze diverse nella sua matrice blues, è un suono di sintesi perfettamente in sintonia col suo tempo. Ma è calor bianco, incandescenza pura, energia paurosa, aperto invito a lasciarsi andare, a tornare ad emozioni primigenie. Un blues primitivo e nel contempo moderno, che scuote ed affascina.
Nell’inevitabile bis, concesso a furor di popolo, Jon aizza la folla che nel frattempo è diventata ribollente, sotto il palco. I pogo sono quasi educati, c’è chi ti chiede scusa per averti urtato, persino. E lui si sporge fuori in una selva di mani alzate, urla tre volte il nome del Locomotiv, schitarra ancora violentemente prima di accennare un blues torpido e poi ripartire a mille. Usciamo fuori vomitati nella notte sapendo di aver assistito ad un concerto memorabile, divertente e onnivoro. Non sarà il futuro del rock and roll, ma quanto ci piace.