Judas Priest, il report del concerto a Milano del 23 giugno 2015

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Un concerto dei Judas Priest, soprattutto se il primo in assoluto, richiede una certa preparazione. In primis, indispensabile un ripasso della titanica discografia di questi mostri dell’heavy metal; poi, già che ci siamo, un paio di occhiali a specchio e qualche borchia posizionata strategicamente, che aiutano a calarsi al meglio nel mood della serata. E ieri, 23 giugno 2015, c’era qualcosa di magico nell’aria, come se una serie di combinazioni astrali si fossero allineate per qualche ora nello spazio della Summer Arena di Assago, a Milano (mi inchino al Dio del Metal per aver smentito le previsioni meteo che minacciavano temporali dalle 20 in poi, e per averci regalato un tramonto a metà tra il mistico e lo spettacolare). Tutto questo, per arrivare alla musica: non si poteva chiedere di meglio e di più.

Tocca ai Five Finger Death Punch aprire le danze, e nonostante siano stilisticamente lontani anni luce dai Judas Priest, lo spettacolo è stato più che apprezzato, soprattutto dalle prime file (per quanto mi riguarda, ogni volta che vedo questi simpatici omacci, ci lascio un pezzettino di cuore). Brani come “Burn MF” infiammano la folla con un botta e risposta nel quale ci si esorta a darsi fuoco a vicenda, e anche l’apparato scenico, seppur molto semplice, è di sicuro effetto: quante chitarre avrà cambiato Jason Hook? Poi, detto tra noi, basta il vocione di Ivan Moody e la presenza scenica del bassista Chris Kael per colpire e affondare il bersaglio. Vincono definitivamente il titolo di migliori supporter dell’anno quando fanno salire sul palco un ragazzino pescato dalle prime file ed esclamano: “Questa è la nuova generazione dell’heavy metal!”. Set breve ma intenso. Bravi, ci rivediamo al prossimo tour (torneranno in Italia da headliner a novembre).

Cala (letteralmente) un sipario “brandizzato” sul set dei 5FDP, e calano pure le tenebre portandosi con sé nugoli di zanzare impazzite che non vedono l’ora di banchettare con il sangue del pubblico manco fossero dei Dracula in miniatura. Alle 21.30 spaccate è il turno dei Judas Priest, in grande, grandissimo spolvero. La voce di Rob Halford non sembra invecchiata di un giorno, e pure i suoi compagni di avventure picchiano duro come agli inizi. Superlativo anche il nuovo acquisto Richie Faulkner, che sembra trovarsi a suo agio sul palco atteggiandosi da superstar e dando bella mostra di sé (e del suo completo di pelle borchiato), oltre che delle sue indubbie doti da musicista.

Il set si apre con “Dragonaut”, opener dell’ultimo album “Redeemer of Souls”, durante la quale il buon Halford esordisce appoggiandosi a un bastone da passeggio: è un trucchetto già utilizzato durante le altre date del tour europeo, un buon modo per scherzare sul trascorrere inesorabile del tempo, e difatti già durante il secondo pezzo del bastone non c’è più traccia. Ottimo l’equilibrio tra i pezzi storici e quelli più recenti, che dal vivo suonano davvero magnificamente, e azzeccatissima la scelta dell’allestimento del palco e la parte visual: che spettacolo “Love Bites” con una sorta di karaoke anni ‘20 sulle immagini del mitico “Nosferatu” di Murnau.

L’unica ballad della serata è “Beyond the Realms of Death”, durante la quale il frontman sfoggia un pastrano paillettato che è una meraviglia, come del resto tutte le sue vistose mise. Prima degli encore, si chiude con tre pezzi da novanta: “Jawbreaker”, “Breaking the Law” e “Hell Bent for Leather”, con tanto di Harley Davidson che Halford cavalca con la solita spavalderia arringando la folla con il suo frustino fetish. Poco fa parlavo di encore al plurale: sì, perché i nostri ce ne regalano due, uno più bello dell’altro, e con una versione di “Painkiller” che fa scuotere la testa anche allo spettatore più timido.

Che dire, una serata del genere non capitava da tempo. Il mio unico, grande rimpianto è di aver visto i Metal Gods per la prima volta solo ieri, ma data la resa finale, non penso che avrei riscontrato grandi differenze con uno show di qualche anno fa.

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