I Korn approdano all’Alcatraz di Milano in una fredda sera invernale, quella dell’1 febbraio 2015, nel primo dei due concerti italiani in programma nel loro tour. Per descrivere le sensazioni, le insicurezze e le paure che i fan della band statunitense provano appena prima dell’inizio dello show servono alcune premesse.
Il loro esordio con l’album “Korn” del ’94 è considerato da molti il primo mattone fondatore dell’era nu metal, da moltissimi preso come esempio ed il suo stile copiato senza pudore. Hanno venduto qualcosa come trenta milioni di copie nel mondo, il loro stile è diventato un brand. Super sponsorizzati, i loro videoclip uscivano come vero e proprio evento mediatico. Insomma, erano fighi da far paura, davano voce e rabbia ad una generazione intera di ragazzi. Poi i suddetti ragazzi sono cresciuti, il fenomeno nu metal è scemato e molti gruppi con lui. I Korn sono riusciti a sopravvivere, ma il loro continuo tentativo di modernizzare il sound li ha portati a fare strafalcioni in quantità sufficiente a minare la loro credibilità.
Hanno dato forfait componenti storici come Brian Welch ‘Head’, che ha trovato la fede e non andava più molto d’accordo con i temi estremi dei testi della band, e il batterista David Silveira. Jonathan Davis ha avuto problemi di salute, vari musicisti più o meno famosi si sono succeduti in diversi tentativi di rimpiazzo, creando confusione e offuscando l’identità del gruppo. Se a tutto questo aggiungiamo la dubstep e Skrillex, è giustificato il sudore freddo provato da chi li ha adorati ad ogni loro singolo e video. Dall’ultimo album però qualcosa è cambiato. È rientrato ‘Head’ Welch (dopo un piacevolissimo progetto spin off chiamato “Love & Death”, caldamente consigliato) e sembrano aver trovato un buon compromesso tra vecchio sound ed ultime sperimentazioni elettroniche.
Dopo il trascurabile apporto del gruppo spalla The Qemist, un imbarazzante mix di dubstep, chitarre inibite e intermezzi canori da Top of the Pop, i ragazzi della crew portano in scena l’asta del microfono di femminea figura ed il pubblico impazzisce.
Pochi minuti e tutti i dubbi vengono spazzati via da una dichiarazione di intenti musicale: “Here to Stay” parte con il suo riff portentoso e, tra headbanging e cori urlati al tetto dell’Alcatraz, la scaletta si snocciola come un piacevolissimo greatest hits della loro carriera. Il pubblico è completamente conquistato, canta e balla e si scardina il collo.
L’ultimo album è relegato in due unici pezzi – “Love & Meth” e “Spike in my Veins” – che non sfigurano per niente in mezzo alla maestosità di un’intera carriera di successi commerciali, a ribadire che anche in studio l’alchimia è tornata. In una scaletta che non lascia scendere praticamente mai l’indice di divertimento, spiccano una piacevolissima cover di “Another Brick in the Wall” e la finale “Blind”, presentata da Jonathan Davis come la canzone che vent’anni or sono ha dato il via alla loro avventura. In questo stato di forma, si può solo sperare di rivederli presto.