Lenny Kravitz, il report del concerto all’Hydrogen Festival del 29 luglio 2015

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Arrivarci a cinquantuno anni come Lenny Kravitz: il cantante newyorkese, tornato nei negozi lo scorso anno con l’esplosivo “Strut”, ha chiuso l’edizione 2015 dell’Hydrogen Festival di Piazzola Sul Brenta (PD) con una performance memorabile di quasi due ore, iniziata con un leggero ritardo a causa del maltempo che ha colpito la zona poco prima dell’inizio del concerto.

Il Lenny Kravitz del 2015 è un figo: ha uno stato di forma fisica che il 99,9% del genere umano si sogna, canta ancora bene (sono ben pochi i cali di tono nel corso della serata), si porta dietro una backing band della madonna guidata dal chitarrista Craig Ross e dalla batterista Cindy Blackman, e con la storica bassista di David Bowie Gail Ann Dorsey come pezzo da novanta, e riesce a fare un concerto di quasi due ore proponendo una scaletta di soli dieci pezzi. Sì, perché la tournée estiva di supporto alla sua ultima fatica discografica, che troverà spazio nella sola “Frankenstein” proposta in apertura, è in realtà l’esplosione dell’anima più funk e blues del cantante, capace di allungare i pezzi senza scendere nel ridicolo, compresa la combo “Always On The Run” / “Let Love Rule”, durata più di venti minuti ed utilizzata per dare spazio agli assoli dei vari strumentisti e per salutare tutto il pubblico, compreso quello presente in una balconata laterale dell’anfiteatro.

La scaletta è, come già detto, a ranghi ridottissimi: solo una decina di pezzi, uno solo dall’ultimo “Strut”, ma con una combinazione perfetta delle sue hit più famose e brani meno conosciuti dai causal listener. I picchi di emozione si sono toccati nella parentesi acustica nella quale sono state proposte “Sister” e “Believe”, brani pescati dal leggendario “Are You Gonna Go My Way” nei quali per alcuni le lacrime si sono mescolate alla pioggia battente, mentre il momento no è stato fortunatamente circoscritto ad una poca riuscita “Fly Away”, canzone minata da dei problemi tecnici a livello di suoni che hanno azzerato l’impatto di uno dei suoi più riusciti successi. La durata media dei brani ha superato i dieci minuti, in un approccio a cavallo tra rock, funk e blues che Kravitz si è potuto permettere grazie all’aiuto di una band di supporto dal talento incredibile: un tastierista, tre coriste/percussioniste, tre fiati, chitarra, basso e batteria che hanno dato prezioso supporto al musicista ma che hanno avuto spazio per mostrare la loro bravura.

Certo, mancavano i singoli del nuovo disco premiato con il disco d’oro in Italia, io per primo mi sarei sentito volentieri quelle bombette di “The Chamber” e “New York City”, ma il concerto proposto nella leg estiva riprende il discorso già iniziato con la prima parte autunnale di fine 2014: pochi pezzi allungati da sing along, assoli e improvvisazioni. Una formula coraggiosa che può portare a del malcontento tra alcuni fan; ma fare ciò senza annoiare, salvo una breve parentesi, è cosa che in pochi riuscirebbero a fare. E Lenny Kravitz ce l’ha fatta. Idolo.

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