Correva l’anno 2000. L’Arena Parco Nord a Bologna era il tempio del rock dal vivo nostrano, ospitante di Festival come l’Independent Days e il Flippaut, l’occasione per i giovani italiani di vedere dal vivo quelle voci, quelle urla che da oltre oceano uscivano dalle casse delle nostre tv, spacciate da quei contenitori quali erano Mtv e Videomusic, quando ancora interessava diffondere musica e non storie di miseria umana impacchettata con fiocconi di ipocrisia su larga scala e di facile masticazione.
Avevamo ancora i denti, e avevamo molta fame. La generazione nata negli anni ’80 era troppo in erba e troppo lontana geograficamente per essere investita dal fenomeno Grunge ma la sua ombra e le sue scosse di assestamento sono arrivate fino al 2000, alla generazione del Nu-Metal. Un genere che mischiava più influenze al metal, con l’intento comune di sprigionare rabbia e divertimento, per esprimere l’inesprimibile a parole per una generazione chiusa che si affacciava, pronta come nessun’altra, all’era della reclusione cibernetica che stiamo vivendo.
Andavano le tute dell’Adidas, le treccine ai capelli, le chitarre metalliche si fondevano al rap, alle cornamuse, ad ogni tipo di contaminazione musicale e stilistica. Il post-grunge calcava l’onda del cadavere putrefatto, i grandi dinosauri del metal continuavano imperterriti attraverso la loro parallela linea temporale (i soliti Metallica, Iron Maiden, Montley Crue) mentre dalle zone più calde dell’America arrivavano questi giovani con i capelli sparati a punta, vestiti non più di flanella ma come se fossero pronti alla discoteca pomeridiana della domenica pomeriggio. Però picchiavano, e pure forte. Ed erano maledettamente divertenti. Dall’era tormentata del Grunge avevano imparato la lezione di usare la musica e la rabbia per dare voce a personalità chiuse in gabbia, bloccate da catene di una generazione incompresa dai genitori, che si affacciava ad un baratro sconosciuto, un futuro che non sapeva di apocalisse, ma di immobilità in bianco e nero, stagnante, che forse è ancora peggio.
E la si combatteva con il volume, con i colori, con le urla e la melodia, con il videoclip, uno più figo dell’altro. Ed ecco che Bologna nell’anno 2000 apriva una finestra a questo mondo che finalmente prendeva forma dai nostri VHS. In quel Festival caldissimo presero posto sul palco alcune band emergenti che si affacciavano per la prima volta alla musica live (un gruppo italiano di nome Verdena e uno americano chiamato Muse) e i pezzi grossi Deftones che con il loro album ‘White Pony’ erano al loro apice compositivo e commerciale, i Blink 182 che dominavano le classifiche pop a suon di canzoni e video trasgressivi, leggeri e scanzonati. Ed in mezzo loro, i Limp Bizkit, che con ‘Significant Other’ avevano sfondato e con ‘Chocolate Starfish and the Hot Dog Flavored Water’ piazzarono uno dei singoli di più successo dell’epoca, quella ‘Take a Look Around’ uscita dalla colonna sonora di Mission Impossible, che godeva di una turnazione a sfinimento in tutte le piattaforme rock e non.
Sul palco, un ragazzo che vedeva per la prima volta un concerto di grandi dimensioni è rimasto impressionato dalla potenza di un party metal senza eguali. Quel chitarrista mimo, truccato come un pagliaccio psicopatico. Il basso con le luci, la batteria grande come un transatlantico. Quel frontman sfrontato, senza pudore, che ti adulava e ti insultava senza soluzione di continuità, che scendeva dal palco e andava a calcare i carpet più esclusivi di Hollywood, si prendeva la celebrità più bella e se la portava via. Una band che ha fatto saltare e cantare migliaia di italiani, che ha asfaltato gli headliner Blink al punto da costringerli a chiudere in anticipo il loro set per l’astiosità del pubblico che voleva come gruppo di punta proprio loro, il gruppo nu-metal di Jacksonville.
Cosa è rimasto di quel gruppo sedici anni dopo? Il palco si è ristretto. Milano è ora il teatro dello spettacolo dei Limp, una Milano svuotata e con poco da offrire. Questo se poteva forse far presagire un sottopalco pieno di buchi, ha invece portato ad un audience nutrita, forse più per mancanza di alternative che per un esodo riuscito dei fan. Si alternavano quindi veri seguaci della band a facce spaesate da ‘o mio dio dove sono finito, li faranno i cocktails?’. Non c’è più Dj Lethal, non c’è più Sam Rivers al basso. Wes Borland si presenta come sempre inumano, trasformato da ore di trucco, completamente vestito di bianco e con un teschio disegnato al posto della faccia. Come sempre il chitarrista garantisce uno spettacolo nello spettacolo, alla tecnica musicale unisce movenze da mimo, regalando una performance art a tutto tondo. Ma si vede subito che non è nella sua serata migliore, svolge il compitino senza eccessi, suonando come se volesse portare a termine l’incombenza nel minor tempo possibile.
Tutto il set è improntato a questa attitudine, al minor sforzo possibile, con un uso smodato di basi, come se le corde degli strumenti fossero corrosive e da usare il meno possibile per non rimanere danneggiati. Riempitivi di tutti i tipi, dalle basi rap alle cover più disparate. Wes si è messo a fare un miniset da dj rock durante il quale ha mixato pezzi di facile presa, famigerati fino a sfiorare il paraculismo. Anzi, diciamo che nel paraculismo ci hanno navigato a vele spiegate, mettendo on air pezzi come Walk dei Pantera, Rage Against The Machine, Korn e altri cavalli di battaglia da rock-teca.
Se uniamo anche due mini set di cover, uno dedicato ai Metallica (Master of Puppets e Sad But True, per le statistiche) e ai Nirvana (Heart Shaped Box e Smell Like Teen Spirit), la parte dedicata al set vero e proprio dei Limp Bizkit si riduce ad una manciata di hit del passato suonate in fretta e furia, perché il treno dei ricordi e della nostalgia non aspetta proprio nessuno. La canzone più recente è la buonissima ‘Gold Cobra’, l’episodio più vicino ad una speranza di futuro musicale per la band.
Per il resto non hanno mai smesso di essere una cover band, anche di loro stessi. Si inizia con ‘Rolling’, passando dalle storiche ‘Hot Dog’, la cover di George Michael ‘Faith’, ‘Nookie’ e ‘Break Staff’ dall’album ‘Significant Other’, ‘My Generation’ e ‘My Way’, sempre efficaci, per chiudere con la famigerata ‘Take a Look Around’. Poco più di un’ora di concerto ragazzi. Persino il tappeto musicale per il cambio palco viene il dubbio che sia stato costruito appositamente per cercare di riempire lo stomaco al pubblico nel disperato tentativo di mandarlo a casa a pancia piena nonostante un set risicato ai minimi storici, anch’esso con pezzi di facile inghiottimento.
Fred Durst è apparso in forma, il solito istrione che dialoga con il pubblico in tutti i modi, concessi e non. Il momento di interazione con un bambino prelevato dal pubblico è apparso francamente imbarazzante. Troppe scorciatoie, troppi riempitivi per nascondere un baratro lasciato dalla dipartita dell’identità di un gruppo che non esiste più. Un tempo erano tra i più amati e odiati al tempo stesso del circuito musicale, mentre il loro presente e futuro più immediato si presenta un oceano sconfinato di indifferenza e oblio. Spiace, ma ci sono tanti musicisti con qualcosa da dire, ed è tempo di farsi da parte.
Scaletta Limp Bizkit Carroponte 2016
Rollin’ (Air Raid Vehicle) / Master of Puppets snippet
Hot Dog / Sad But True snippet
Gold Cobra
My Generation
Livin’ It Up
Eat You Alive
Boiler
Faith (George Michael cover)
My Way
Nookie
Heart-Shaped Box / Smells Like Teen Spirit (Nirvana cover)
Break Stuff
Take a Look Around