Avvilito e prevalentemente scostato dalla moria di gente in quel del Rockin Field Fest, mi appresto a seguire con malcelato pregiudizio lo show di un gruppo, i Mago De Oz, che in patria (Spagna) e nei paesi latini, gode di una popolarità ai limite del disarmante.
Pregiudizio nei confronti del pubblico, certo, che anche in questa occasione non supererà le duemila unità ma ha dalla sua una prerogativa, quella di essere variopinto: messicani, colombiani, argentini ed ecuadoriani alla corte del Mago, senza omettere il migliaio di italiani accorso al parco Idroscalo di Milano armati di grande, grandissimo entusiasmo.
Il menu si presenta ricco e appetitoso ma, a differenza del giorno prima, presuppone soltanto quattro portate a prezzo più che conveniente: venti euro per un sano pomeriggio all’insegna del power/folk metal.
Questa volta raggiungo la location nel lasso di tempo prestabilito e mi apparto in una zona confortevole non troppo distante dal palco: il momento giusto per mettere insieme un paio di considerazioni a caldo in attesa del primo support act.
PREZZI: estremamente competitivo quello del biglietto d’ingresso, già indicato, inversamente proporzionale quello relativo ai viveri: sei euro e cinquanta per un trancio di pizza e cinque euro per una birra sono importi intollerabili. E l’acqua? Sabato un euro e cinquanta per il mezzo litro, domenica due euro: alla faccia dell’inflazione. Non ci sono giustificazioni che tengano.
MERCHANDISING: povera e insufficiente la zona dedicata ai gadget. Un paio di stand microscopici e il banco dedicato ai FolkStone (gettonatissimo, almeno quello) ai quali si aggiungono il chiosco per le bevande e il solito tendone distante trecento lunghissimi metri dal palco. Troppo poco.
LOCATION: beh, l’Idroscalo è una zona confortevole e appagante, qualche zona d’ombra in più non farebbe male. Si poteva fare qualcosa di meglio sull’argomento “bagni”, molto distanti dal palco e lasciati in pasto ai metallari che non hanno fatto nulla per tenerli in uno stato decoroso. Qui, più che all’organizzatori, il pollice verso va al pubblico.
ORGANIZZAZIONE: mi riferisco agli orari dei concerti, rispettati al secondo, e al mixing piuttosto soddisfacente, anche se il sound check dei Mago De Oz è cominciato prima del concerto ma pare non essere mai finito perché ce lo siamo portati praticamente sino in fondo.
Quando salgono sul palco i Trick Or Treat qualcuno si schioda dal terreno per avvicinarsi a quella che io chiamo la “succursale italiana degli Helloween”, che ha dimostrato di essere in gran forma, divertendosi con un repertorio estratto dal disco d’esordio, Evil Needs Candy Too, e sorprendendo con le cover della sigla del cartone animato Robin Hood di Cristina D’Avena e Girls Just Want Have Fun di Cyndi Lauper. In attesa del nuovo dolcetto Tin Soldiers, ottimo scherzetto.
I Trick Or Treat lasciano spazio al gruppo che più ha impressionato, certamente quello che dopo il concerto ha venduto il più alto numero di dischi/magliette: i FolkStone.
La compagine orobica ha sfondato con il suo proverbiale Mittelalter Rock a la “In Extremo” e, seppur non estremamente dotata tecnicamente, ha attraversato i cuori dei presenti regalando brani dalle melodie mistiche e circolari che davvero lasciano il segno. Bombarde, cornamuse, flauti, arpa celtica, chitarre e sezione ritmica dominante (bravissimi Ferro al basso e Fore alla batteria) per una scaletta che ha incluso la elettrizzante Folkstone, la cantatissima In Taberna (l’inno immancabile), la potente Rocce Nere e tanto altro dal fortunato debutto. Encomio anche per il cantante Lore, sia per la performance che per le spassose dissertazioni con accento bergamasco annesso. Promossi a pieni voti.
Meno felice, a parere di chi scrive, la prestazione degli Elvenking che hanno giovato di un suono ultrapotente ma anche un po’ impastato penalizzando lo strumento guida: il violino. Violino “azzoppato” dalla sfortunata defezione della titolare, sostituita da un musicista che, a detta della band, si è dovuto imparare tutto il repertorio in un solo giorno.
Il recente de Schyte è il disco che ha risentito meno del violino che andava e veniva, ma brani favolosi da studio come The Wanderer e To Oak Woods Bestowed sono stati largamente sfavoriti. La scarsa partecipazione del pubblico è confermata dal pezzo The Winter Wake che Damnagoras ha tentato in più modi, ma non c’era verso, di far cantare ai presenti e in generale, anche se mi è parso un gruppo in netto miglioramento dal vivo, non mi hanno fatto una grossa impressione.
E’ il momento tanto atteso, quello che prevede i Mago De Oz, gruppo che sorprende tutti presentandosi all’Idroscalo soltanto cinque minuti prima dell’inizio del loro show. I dieci spagnoli non si lasciano desiderare e, benché ci sia stato qualche problema tecnico mai risolto, hanno convinto grazie alla grande sicurezza che li unisce e alla professionalità che individuiamo nelle formazioni storiche, quelle più importanti.
Convince tutto, il suono, gli strumenti a fiato e il violino, la voce di uno spettacolare Josè Andrea e la batteria di un invasato Txus Di Fellatio, figura portante del gruppo, tutto tranne la stramaledetta scaletta che non prevede alcuni dei tanti cavalli di battaglia. Per fortuna non mancano Fiesta Pagana (richiesta a gran voce), La Posada De Los Muertos, La Ciudad De Los Arboles, Hezme Un Sito Entre Tu Piel da Gaia II, ma dove sono Gaia, La Voz Dormida, La Cantata del Diablo e La Leyenda De La Mancha? D’accordo promuovere l’ultimo nato, ma dove sono i brani migliori?
Tra l’altro nessun tipo di coreografia a supporto (non vi racconto dello stage spagnolo che è meglio) e niente costumi come succede, solitamente, in quasi tutte le occasioni. Un’ora e mezza di spettacolo è un po’ pochina, ma è bene accontentarsi: spostarsi per un’unica data italiana e avere di fronte nemmeno 2 mila anime, quando in patria ne fai trenta mila di media, non sarà stato un buon deterrente o un incentivo per suonare di più.
Tirando le somme, con pochi euro siamo riusciti a passare una giornata in totale armonia con la musica folk. Un “bravi” ai presenti che hanno onorato un festival che crediamo (e speriamo) possa ripetersi in un futuro non troppo lontano.
Gaetano Loffredo