Malcolm Middleton alla Casa 139 c’era già stato i primi di Gennaio di quasi tre anni fa, come spalla di Robin Proper-Sheppard dei Sophia allora in Italia per presentare Technology Won’t Save Us, il loro nuovo album. Quanto Proper-Sheppard era apparso sicuro, tanto lui era parso a disagio, fra sorrisi imbarazzati, canzoni lasciate a metà perché dimenticate e testi intimi fino a sfiorare la psicanalisi: inutile dire che me ne ero subito innamorata.
Quella che Malcolm Middleton ci ha proposto in questa data milanese del tour promozionale di Waxing Gibbous, è stata invece una serata completamente diversa da quella di due anni fa: stavolta ad accompagnarlo sul palco c’erano, oltre a lui, altri tre musicisti divisi fra chitarra, tastiere (e campioni vari) e batteria, che hanno dato un’impronta marcatamente rock a tutta l’esibizione, portandoci lontano dalle venature folk tipiche della sua musica riapparse solo durante i bis.
La partenza è al rallentatore, con una Crappo The Clown dipinta di tinte ancora più cupe che nella versione di studio e rallentata in un incedere dal sapore lisergico: ci è subito chiaro di che pasta sono fatti questi quattro musicisti di Glasgow, che in un minuto, grazie ad un rassicurante salto all’indietro verso le origini, ci fanno dimenticare i troppi passi falsi e le lacune di Waxing Gibbous. Bastano poi le successive Choir e Love In Waves a fugare tutti quei dubbi in termini di coerenza e gusto artistico che potevano averci lasciato i suoi ultimi lavori: dal vivo i pezzi suonano in tutt’altra maniera, affascinano, trascinano.
Assicuratami che no, non ci sono signorine sul palco pronte a fare le seconde voci e che sì, Malcolm è sempre lui, il concerto scorre liscio come l’olio virando tanto verso il post degli amici Mogwai nei finali a strascico distorto delle canzoni, quanto all’indie di classe dei compagni di strada Delgados, non mancando mai di farci divertire mentre scuotiamo la testa a tempo, come nella bellissima versione di Box And Knife, imparagonabile a quella di studio.
Il chitarrista schivo ed introverso degli Arab Strap è ormai solo un ricordo: quello che vediamo oggi è un frontman capace di coinvolgere il pubblico, di farlo ridere, come nel finale di Devil And The Angel, di conquistarlo con una battuta ed averlo in pugno per tutta la serata. Del ragazzo timido che si mangiava le parole, su quello stesso palco, due anni fa, sono rimasti solo i testi, sempre brillantemente a contrasto nel contesto pop dei suoi pezzi, e un’ottima dose di autoironia, palpabile ad ogni mossa, che non posso non pensare sia, insieme alla struttura di Autumn, stasera particolarmente sfolgorante, la bellissima eredità lasciatagli da dieci anni di Arab Strap.
Francesca Stella Riva