Cosa ci suonerai stasera, buon vecchio McCoy (Philadelphia, 1938)? Ti vedo arrancare faticosamente verso il piano illuminato, one two three four, ed ecco il ruggito del leone a dare il via alla serata. La Cavea dell’Auditorium è bella piena, a riprova che la Capitale non è così insensibile alla musica ‘colta’ come dicono le male lingue.
Certo non è il McCoy degli anni eroici, quei cinque anni magici col quartetto di Sua Maestà John Coltrane (1926-1967) dove ogni concerto era una milestone direttamente destinata alla Storia.
Non è neppure il McCoy che ho ascoltato, vent’anni fa, nei club di New York. Centrato intorno al suo trio, solido, efficace, pragmatico.
E’ un McCoy, quello di stasera, che riesce, con i trucchi del mestiere, a nascondere certe imperfezioni, anche attraverso un certo abuso del sustain, ma quando il suono decolla allora sono davvero scintille, complice sia una linea di ottimi solisti che una splendida sezione ritmica.
Gary Bartz (Baltimora, 1940) è sempre un artista da ascoltare con rispetto. Pulito, elegante, ogni assolo è una piccola lezione di stile. Bill Frisell (Baltimora, 1951) dismette, per una volta, i panni del chitarrista impegnato e super intellettuale e si lascia contagiare dall’energia positiva del gruppo. E torna al blues, alle ritmiche afro, alle sonorità latine. Si lascia andare, come tutti noi, al flusso della musica. E, come noi, si diverte.
E la ritmica? Fantastica sia nella perfezione e fantasia di Gravat che nel lavoro di fondo di Cannon. Anche lì, cari studenti di musica jazz, imparate come un assolo di contrabbasso possa essere coinvolgente e, soprattutto, assolutamente contestualizzato, pieno di riferimenti al tema iniziale, una sua rielaborazione critica. Idem per il drummer che, sia accompagnando che da solo, non perde nemmeno per un istante la tenuta ritmica del gruppo. Ossia: la sezione ritmica che tutti vorremmo al nostro fianco!
McCoy è, una volta portato a regime, un fiume di note e, direi di più, una corrente di idee. Ogni introduzione è un brano nel brano; ha sempre questa mano sinistra un po’ pesante ma questa caratteristica gli viene utile a ‘richiamare’ il gruppo, a riprendere le fila del discorso. Ci sono molti pianisti tecnicamente migliori di McCoy.
Eppure tanti regalerebbero, sono certo, la metà del proprio virtuosismo solo per avere anche solo un po’ di quel guizzo fulminante, di quell’energia positiva che sospinge e trascina. E la mano destra di McCoy resta fedele a quel fraseggio blues, pochi affondi ma determinanti, pochi riff ma assolutamente vincenti.
Dura poco, il concerto. Il vecchio McCoy è davvero affaticato. Ma il pubblico continua ad applaudire. Ci fa sentire qualcosa di “Sahara”, poi “How deep is the ocean”, qualche tema di “Time for Tyner”.
Dall’arto dei cieli John Coltrane si diverte ad ascoltare. Si guarda negli occhi con Elvin Jones e sorride: “Ne ha fatta di strada quel negro cocciuto, lo dicevo io”, dice. E tutti e due ridono nella notte stellata.
McCoy Tyner, piano
Gary Bartz, tenor & alto sax
Bill Frisell, electric guitar
Eric Kamau Gravat, drums
Gerald Cannon, double bass
Si ringrazia Massimo Pasquini
Marco Lorenzo Faustini