Gli ultimi due giorni di marzo hanno visto i Mogwai in Italia per due concerti di presentazione del nuovo album, “Rave Tapes“, uscito a gennaio. Il 30 marzo 2014, la band icona del post-rock scozzese ha riempito l’Estragon di Bologna di nuovi suoni e colori.
“Hardcore will never die, but you will”, professavano i Mogwai tre anni fa, all’uscita del loro penultimo disco, come a dire che la musica è qualcosa di concreto mentre la nostra, di vita, è passeggera, quindi tanto vale non pensarci poi troppo e godersela. Un’idea che potrebbe anche impattarti il cranio con la violenza di una pallottola ma che spiegherebbe anche la pacata serenità, se non a momenti immobilità, della band sul palco. Forse è che ci pensano le tempeste di suono a scuotere l’aria a sufficienza.
Sulle prime note un po’ melliflue di “Heard About You Last Night”, gli applausi calorosi del locale sold-out scemano. Sul palco c’è un microfono vuoto abbracciato da un faro, chissà cosa vorrà dire. Più dietro, sullo sfondo, l’occhio scrutatore dell’artwork di “Rave Tapes” ti sta leggendo dentro. La scaletta si articola in modo organico tra il nuovo e il vecchio, o sarebbe meglio dire classico, e se le chitarre restano l’incanto e il portento della band di Glasgow, talvolta così distorte da parere mostri, altri tenere come amanti, riluce tra le tessere del mosaico il riverbero dell’analogico, che coadiuva e rilegge anche alcuni dei brani sparsi nel passato più remoto del gruppo.
Il suono incede da ogni parte, ti cattura, un po’ ti culla e un po’ ti striglia, tra brevi pause che intercalano i pezzi. Martin Bulloch è assente causa infortunio, al suo posto Jonny Scott (The Unwinding Hours, Strike The Colours) ti fa quasi dimenticare che non sia lì.
Nel locale il tempo è fermo: raramente capita di vedere un pubblico tanto assorto e tanto scosso, è un pogo interiore, perché da “Rano Pano” già si è sopraffatti, è un moto perpetuo. Come se non bastasse, le luci ti strappano gli occhi in lampi feroci, che tanto ormai a poco ti servono, alle strette di quelle pareti di suono che rinchiudono in ambienti così vasti.
Dai crescendo modulati di “I’m Jim Morrison, I’m Dead” ai fragori elettronici di “Hunted By a Freak”, tanto è universale quel sentimento mosso dalla loro vivida interpretazione da poter essere la colonna sonora di frammenti di vita di ciascuno. E sì, sarà anche un cliché quello della musica strumentale come potenziale soundtrack di storie mai ancora raccontate ma se c’è discernimento e capacità, si possono abbracciare anche i più beceri luoghi comuni e proseguire a spron battuto senza bisogno di giustificazione.
Quando Stuart Braithwaite si approccia al microfono per l’unico pezzo cantato della serata, “Blues Hour”, è un canto dalla fine del mondo. L’aria sarebbe già abbastanza satura, se non fosse che qui si suda l’anima e arrivati a “Mogwai Fear Satan” si è poco più che un cencio inumidito di gioia e rumore.
L’orologio suggerisce che il concerto è stato breve quando gli ultimi echi dell’organo analogico di quella cavalcata neo-psichedelica che è “Mexican Grand Prix” aleggiano per il locale. Non me ne sono accorta, mi è parso eterno, e ne sarei anche molto soddisfatta, se non fosse che il bis è di rigore, si sa, e il peccato è non bramarne ancora.
Una (ri)apertura ancora affidata al piano, questa volta con “White Noise”, seguita da “Auto Rock”, unico assaggio di “Mr. Beast” offerto nel corso della serata. Il concerto si chiude in un’atmosfera nuova: su “Batcat” le luci sono arancioni e il suono è da fa sanguinare i timpani, doloroso. Più che una fine sembra l’inizio di qualcosa di diverso e in fondo che importa se almeno per un po’ nelle orecchie ti risuonerà soltanto quello? In fondo, noi ce ne andiamo ma quella musica no.
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