Voce scura, talento cristallino, Nadine Shah con Love Your Dum and Mad ha messo la firma su uno degli esordi più interessanti del 2013. Incensato da pubblico e critica l’album, uscito il 22 luglio scorso via Apollo Records (sussidiaria di R&S, etichetta belga sotto la direzione artistica di James Blake) e prodotto da Ben Hillier (Blur, Depeche Mode), coautore dei pezzi assieme a Nadine, raccoglie undici tracce dal sapore lunare, nelle quali all’indie rock delle conterranee PJ Harvey e Anna Calvi, s’intrecciano le atmosfere dark di Nick Cave e quelle trasognate e minimali di Agnes Obel e Antony Hegarty. La spolverata jazzy che ricorre qua e là nel disco, specialmente nel trattamento della parte vocale, unita ad una visione musicale a 360° dettata da una formazione classica, fanno il resto, consacrando il sound di Nadine Shah come un unicum nell’odierno panorama del cantautorato alternative.
Salpata un paio di settimane fa per il tour europeo, la cantautrice, pianista e chitarrista di Whitburn (Newcastle) ha fatto tappa in Italia domenica 16 marzo per un’unica data al 75beat di Milano. Ad aprire, Pete Jobson, bassista della band della Shah e tenebroso cantautore stilisticamente molto vicino a colossi quali Tom Waits e Leonard Cohen, “ma più figo”, come ha sottolineato Nadine (tra il pubblico durante la performance) nel ringraziarlo per la godibile tripletta di pezzi con cui ha scaldato l’atmosfera della piccola, ma accogliente venue («il posto più strano in cui abbia mai suonato – ha notato la cantautrice – ma mi piace, riesco a vedere le vostre facce»), insinuandovi il giusto tasso di oscurità e sentimento che andranno caratterizzando il resto della serata.
Dieci i pezzi in scaletta per Nadine Shah – look total black (così come gli altri membri della band) e capelli ordinatamente raccolti in uno chignon -, elegante protagonista di un live estremamente intimo ed intenso, resa dal vivo di un album che parla di perdita, abbandono e rimorso, facendo i conti con il tema difficile della salute mentale e durante la stesura del quale due intimi amici della cantautrice – uno di essi, Matthew Stephens-Scott, autore degli interessanti dipinti utilizzati per l’artwork del disco – si sono tolti la vita: «l’album – racconterà Nadine fermatasi a lungo dopo lo show a parlare con i fan – riguarda in grandissima parte queste due persone». Un’ora e mezza di musica, che oltre che per la qualità della scrittura dei pezzi, ha incantato per l’estrema varietà di registri che Nadine Shah è in grado di utilizzare senza smarrire la propria cifra stilistica.
Si va dalla scrittura pregevole e delicata di Dreary Town, eseguita in apertura ed immediatamente seguita dalla stridente violenza di Aching Bones, per ritornare alle atmosfere ovattate di Floating. E poi ci sono l’arrangiamento scarno di All I Want, che lascia agio all’incredibile voce dell’artista di esprimersi, tirandone fuori in particolare le sfumature jazzy, la solidità delle ballate rock The Devil e To Be A Young Man, che l’avvicinano splendidamente a Nick Cave, PJ Harvey e per scrittura, almeno nel secondo caso, al compianto Jeff Buckley e il grunge dalle tinte fosche del b-side Never Tell Me Mam. Anche la cover di Blue di Dennis Hopper Choppers si permea di una caratteristica patina di oscura sensualità, assente nell’originale, così come lo standard jazz Cry Me A River suonato in chiusura piano e voce (e che voce, quando pensi di aver sentito tutto, lei ti sorprende arrivando dove mai ci si aspetterebbe in termini di potenza e controllo) da Nadine sola sul palco. Dovessimo dirlo in una parola? Fenomeno.
Grazie a Cinzia Meroni
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