Nashville Pussy, il report del concerto a Ravenna del 30 maggio 2015

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Premessa, doverosa premessa: non avevo mai visto i Nashville Pussy dal vivo in vita mia, né li conoscevo particolarmente bene. Oh, può capitare quando ti fai di musica 24 ore al giorno e di roba da ascoltare ce n’è sempre tantissima. Qualche brano qua e là che affonda in vent’anni di altro rock, ma già dal nome e da qualche video live la band americana non poteva che incuriosire.

Quando si affrontano certi concerti per la prima volta bisogna essere circondati da gente consapevole e competente, così al Rock Planet di Pinarella di Cervia il 30 maggio 2015, in una serata da tarda primavera che inviterebbe ai falò in spiaggia, sbarchiamo in sei musicisti più o meno degni di questo nome, tutti affamati di rock senza pensieri. E veniamo prontamente soddisfatti, alla faccia del fuocherello in spiaggia: qui parliamo di incendio puro, imbenzinato a Jack Daniel’s misto saliva.

Aprono lo show gli italiani Simple Lies da Bologna: un paio di pezzi conquistano nonostante i suoni fatti un po’ malino, ma i ragazzi fanno del loro meglio per far salire l’atmosfera della serata. Un plauso alla voce del cantante Jack H (Alberto Molinari), che ricorda i momenti migliori di Chris Cornell e Brandon Boyd puntando alle stelle di Mike Patton.

Ma il pubblico riempie solo a mezzanotte passata il Rock Planet ed è tutto per i Nashville Pussy. Una bandiera confederata degli stati sudisti d’America fa da sfondo al loro ingresso sul piccolo palco: tra le grate e l’odore di whisky, sembra di stare davvero in una scena di Blues Brothers versione hard rock. L’attacco è un cazzotto in faccia durante una rissa: “Come On Come On” dà il via ad uno show senza respiri.

I Nashville sono corpo, muscoli, sudore. Non esiste nulla di più fisico del loro show. Nessuno si risparmia, nemmeno l’apparentemente tranquillo batterista Jeremy Thompson soprannominato “il metronomo texano” (giustificatissimo). Non sono da meno le bordate di basso di Bonnie Buitrago, che sostiene la sezione ritmica, e l’eroe nazionale Blaine Cartwright, voce e fantastico frontman distrutto che non perde occasione per ghignare al pubblico le canzoni. Ma la star è ovviamente la strepitosa Ruyter Suys, la chitarrista one-woman-show che non sta ferma un attimo e trasuda carisma da ogni centimetro di pelle, scoperta e non – e vi assicuro che era parecchia -, simulando sesso in continuazione con la sua chitarra.

Un’ora e un quarto di canzoni è il bottino finale del concerto, con una piccola ballad infilata a rallentare un ritmo forsennato. Non c’è tempo per riposarsi, bisogna solo farsi sentire a voce urlata e lasciarsi travolgere dalle sorsate di whisky sputate doviziosamente da Ruyter sul pubblico mentre Blaine, forte del suo personaggio, si fa la doccia con la birra scostando per l’unica volta il cappellino dalla testa.

Tra il pubblico che spacca chitarrine di plastica e balla in stile “Mauro Repetto senza Max Pezzali” si arriva alla cavalcata finale che parte con “Go Motherfucker Go” e chiude con “Going Down Swinging” quale ultima fiammata definitiva. Le orecchie fischiano, segno che il concerto aveva un volume accettabile per il rock, mentre raccogliamo la scaletta originale e ci aggiudichiamo il plettro di Bonnie. In macchina verso casa, la luna sembra davvero quella degli Stati del Sud.

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