È stato il primo dei quattro concerti italiani di Neil Young quello di ieri, 13 luglio 2016, a Piazzola sul Brenta, in provincia di Padova. L’inarrestabile artista si è esibito all’Anfiteatro Camerini accompagnato dai Promise of the Real di Lukas Nelson, presentando il suo ultimo lavoro “The Monsanto Years” insieme a una vasta selezione dei brani del suo repertorio, solista e non.
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Succede che una sera, smessi i panni da lavoro, prendi la tua auto e ti metti per strada, stornando i brutti pensieri e riempiendoti le membra di una strana allegria e una serenità che solitamente ti predispongono a essere recettivo e avido di storie e novità.
La stessa sera, hai in mano il biglietto per un concerto, quello di un artista che ha fatto la storia del rock ma non solo; uno che potrebbe essere tuo nonno e che conosci, più che per le sue canzoni, per l’influenza che ha avuto su altri artisti che invece hai adorato e ascoltato fino alla nausea; uno che da sempre canta di un mondo diverso, di sogni e utopie, di critiche e accuse. Stai andando a dissetarti alla fonte di Neil Young.
E quella sera, ieri sera, come si dà ascolto a un nonno che racconta storie di altri tempi che risuonano sempre attuali e istruttive, così hai sentito cose mai sentite, hai ascoltato una voce unica, ti sei ricordato di un’espressione che hai lasciato sepolta sui libri di scuola, quella definizione che riporta i grandi sotto la dicitura di “Sommi Vati”, e sei trovato a pensare che oggi questi non girano più fra noi in tunica e con l’alloro a cingerne il capo, ma forse se ne stanno in maglietta abbracciando una chitarra nella calura estiva.
E la tua mente, completamente aperta e affamata, oggi si sente appagata e sazia, stranamente tranquilla. Proprio come quando chi ne sa qualcosa si racconta e te le racconta, col solo intento di farsi capire e trasmetterti una parte di sé, e intanto ti riempie e colma alcuni tuoi vuoti.
Neil Young ieri sera si è concesso al pubblico di Piazzola raccontandosi in musica.
Niente proclami, interventi piccanti o dichiarazioni come lo si leggeva fare un tempo: sul palco ha portato se stesso e la sua musica, un poeta e il suo messaggio. E poi ha portato una grande band, i Promise of the Real, e assieme ci hanno donato quasi tre ore di musica.
È partito da solo sul palco il sig. Young, imbracciando una chitarra che trasudava storia del rock, col suo legno segnato dall’uso e dal tempo; al collo un’armonica, di fianco un organo e alcuni simboli dei nativi americani, oltre a disparati richiami ad altri tempi e ad altre società. In solitaria sul palco, ha dato vita a un set acustico che per circa mezz’ora ha cullato i presenti e li ha fatti vibrare sulle note di pezzi storici, che hanno raggiunto un apice emotivo su “Mother Earth (Natural Anthem)”, recitata come una preghiera in un’atmosfera quasi ecclesiastica.
Dopo poco però i registri sono cambiati. La comparsa di figuri in tutina bianca e diffusori (stavano disinfestando o avvelenando il palco? Pareva un’operazione di bonifica da quarantena – un messaggio chiaramente alla Young) ha preparato la scena all’elettrizzante ingresso della band, che ha alzato i registri e ci ha traghettati giù per il fiume, tra le onde del rock e le rive delle jam session di chitarra, accompagnandoci per 25 lunghi brani e regalandoci anche un tributo, quella “Volare (Nel blu dipinto di blu)” che ci rende così italiani agli occhi del mondo esterno.
Così tu, che eri giunto lì assetato di un grande concerto, hai capito che nulla avviene per caso e che quel concerto, quel Neil Young, non te lo potevi perdere. Non te lo dovevi perdere.
E infatti eri lì, col cellulare in mano, che non sapevi con chi condividere quell’emozione e come farlo, tanto che alla fine hai intasato gli amici di sms e messaggi che li hanno fatto invidiare di non essere con te a condividere una tal serata, a sognare su certe canzoni, arrabbiarsi con altre, a saltare e urlare a squarciagola quella “Rockin’ in the Free World” che di solito associ alla voce di Eddie, ma che ieri sera il buon Neil ti ha ricordato essere roba sua. Ed è stata tanta roba.
Fotografie a cura di Giuseppe Craca