Classe 1945, si prende il tempo che deve prendersi, giustamente. Ha rivoluzionato il rock Neil Young, è stato il precursore della contaminazione della musica country e folk con lo spirito rude e sregolato del punk. Alla tradizione, alle radici del rock di quell’America piena di cuore, violenza e contraddizioni per noi ardue da comprendere, ha mescolato lo spirito audace senza compromessi della rudezza unita alla poesia, dello sguardo duro, polemico e anticonformista, al sorriso dolce dell’amore e del tempo che scorre inesorabile, che dà e che toglie, che porta amori e morte. Tutto questo sul palco del Market Sound a Milano ieri sera (18 luglio 2016) ha inizio quasi alle 22 con il pubblico ormai più che caldo e impaziente. I Promise of The Real, accompagnano Young in questo “Rebel Content Tour”. La giovane età dei componenti del gruppo dà subito una ventata di freschezza e energia al suono live, con tutto il rispetto dell’istituzione Crazy Horse. Sono affiatatissimi e lo stesso Neil pare rinvigorito dall’essere accompagnato da musicisti di due, diciamo anche tre generazioni precedenti alla sua.
Il concerto inizia con il boato del pubblico che vede la figura dinoccolata di Young salire sul palco, con il suo immancabile cappello, basettoni, sguardo da duro di granito puro, di chi ne ha viste tante e vissute ancora di più. È solo e si siede al piano al lato del palco. Un piano che è come la sua musica. Vissuto, dal legno consunto, ma bellissimo. Le note che sprigiona provengono direttamente da una flessione del tempo proveniente dal 1971, e una stupenda “After the Gold Rush” veleggia tra la brezza leggera che pettina dolcemente la calda estate del Market Sound, portando la caratteristica voce di Neil alle orecchie dell’estasiato pubblico milanese. Armato del suo caratteristico microfono con armonica incorporata ancorato alla faccia continua con due superclassici provenienti dal capolavoro “Harvest”, anno 1972, la famigerata “Heart of Gold”, che il pubblico canta a squarciagola, seguita da “The Needle and the Damage Done”. Da “Harvest” suonerà anche “Out on the Weekend”, “Old Man”, “Words” e “Alabama”, rendendolo l’album più saccheggiato della serata.
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La sorpresa vera della serata è però la comparsa di Willie Nelson, che raggiunge Neil e il figlio Lukas dei Promise of The Real, dando al concerto ancora più la forma di uno spaccato di quasi un secolo di storia del rock americano. Suona con il gruppo “Are There Any More Real Cowboys?” e la cover della sua “On the Road Again”, per poi dileguarsi con la sua doppia treccia e ritornare per il gran finale, suonando “Homegrown”. 83 anni e ancora uno spirito di ferro, attore e istituzione del rock americano, è un gigante sul palco, anche se i suoi gesti sono quasi accennati e ridotti al minimo, ed è la prova dell’esistenza di uno spirito che sovrasta quello vitale, che porta ai muscoli e alle ossa un’energia che proviene da altrove, da un generatore che da quando esiste l’uomo e la musica fa muovere l’eterna e gigantesca ruota di generazione in generazione. È evidente a tutti su quel palco e ci ricorda perché abbiamo iniziato ad ascoltare la musica, ci ricorda le prime sensazioni e la convinzione conseguente che dopo quelle note la nostra vita non sarebbe stata più la stessa.
A proposito del figlio di Nelson, Lukas si destreggia negli assoli di chitarra per nulla intimorito dal mostro sacro Young che gli si avvicina e sembra nutrirsi della sua freschezza e vitalità, come il vampiro di “Vampire Blues”, suonata tra le ultime canzoni del concerto. Lukas si prende un momento tutto suo quando, seduto all’organo, suona una bellissima ‘italo-americana’ cover di Modugno “Nel Blu Dipinto di Blu” per niente banale e anzi, vista in questa chiave rivisitata da una cultura così lontana dalla nostra, si mostra bellissima in tutta la sua semplice genialità e potenza, attributi che musicisti scafati come Neil riconoscono, apprezzano e rispettano, accompagnando con tutto il gruppo questo tenero tributo al nostro paese.
Neil Young regala qualche sorriso in più della media, regala ciliegie ai componenti del suo gruppo e le lancia al pubblico, è più leggero e ispirato. Graffia e balla sul palco, scudisciate rock si dipanano dalle sue dita e dalla sua chitarra, le sue note vocali sono sempre quelle e pungono come non mai. L’esplosione liberatoria di “Rockin’ in the Free World” è un inno alla libertà musicale, quella per cui il rock è nato, per rompere con il consueto, il conservatorismo, il banale, lo scontato. La urliamo tutti al cielo, come lo facciamo durante i tributi dei Pearl Jam a questa fantastica canzone. Unisce tutti in un energia che ci porta, migliaia di anime, tutti allo stesso cuore dorato del rock.
Neil comincia a divertirsi allungando i momenti strumentali, gli assoli compongono canzoni che superano abbondantemente i 10 minuti, mostrando a tutti un’amalgama che rasenta la perfezione tra tutti i componenti del gruppo, proponendo al nutrito pubblico classici come “Cowgirl in the Sand”, “Western Hero”, “Revolution Blues” e “Powderfinger”.
Il concerto conta ben 25 canzoni in una cavalcata senza pause di più di due ore, che lascia il pubblico soddisfatto e testimone di uno spettacolo che il tempo non può sminuire, anzi. We’re getting old, but we’re still searching for the heart of gold. E ieri sera lo abbiamo addirittura toccato.
(Cover story: Giuseppe Craca)