La reazione che ho avuto appena ho visto Nicki Minaj è stata la stessa che ho avuto quando ho visto Valeria Marini: “ma è molto più magra di me!” Per il suo unico concerto italiano, l’8 luglio 2015 all’Estathè Market Sound di Milano, si fa attendere un’ora e dal pubblico parte, giustamente, anche qualche fischio, poi arriva con un ingresso strano, in punta di piedi, e saluta tutti.
L’aspetto non è quello plastificato dei video che girano su MTV, fa quasi strano vedere che è una donna in carne e ossa, bella, con dei vestiti clamorosi e una vocetta strana.
Nicki Minaj non canta, no, davvero, nemmeno mezza parola. E non si preoccupa minimamente di nascondere la cosa. Ha però in mano un meraviglioso microfono tempestato di glitter rosa che vorrei tanto per cantare “boom boom badoom boom boom badoom boom bass” davanti allo specchio della cameretta. Sembra dirti “hey zio, io rappo da dio, sono la capa, questi pezzi cantanti li hanno buttati dentro i produttori così che anche l’ultimo stronzo poppettaro potesse sapere chi sono“. Menzione d’onore alla vocalist tenuta al buio in un angolino che ha dimostrato di meritare il centro del palco durante “The Night Is Still Young”.
La scaletta è giustissima e il pubblico non perde mai occasione per twerkare, saltare, urlare. Lei incita tutti con dei “ciao Milano mi amor” che mi fanno sorridere perché Nicki cara, stai a Milano, non a Barcellona, qua devi urlare “pirlètta” o “sacchètto”. Ci ricorda che è una delle sue prime volte in Italia e questo fomenta il pubblico a fare di tutto per non farle rimpiangere di essere venuta.
Si parte con “All Things Go” da “The Pinkprint“, l’ultimo album uscito, per continuare con “The Crying Game”, “Feeling Myself”, “Only” e arrivare a “Anaconda”, durante la quale ti viene davvero da dire “oh my god look at her butt!“.
Si dimena scatenata insieme a una sfilza di ballerine e ballerini, continua a essere accompagnata da basi musicali e voci registrate ma a me la cosa non disturba affatto, anzi, è comunque migliore di come mi aspettassi. So bene di non essere al concerto di Beyoncè. Si va avanti con “Where Them Girls At” e “Turn Me On” ed è tutto un crescendo, poi “Hey Mama” di David Guetta; ci sono anche la doppietta “Pound the Alarm”-“Super Bass” che mi fa quasi perdere le scarpe e “Flawless” della già citata Beyoncé. Riesce a far smuovere persino me che di solito senza tre vodka lemon in corpo non mi alzo nemmeno dal divanetto del locale.
Momenti che aggiungono qualcosa in più sono sicuramente la chiamata sul palco di due ragazzi: abbracci, urla, selfie. Lui bravissimo se la cava egregiamente cantando “Whip It”; lei, povera, sembra Mister Potato di Toy Story mentre prova a strusciarsi ai ballerini. Nicki, nel frattempo, si è arrotolata intorno a una bandiera tricolore e ci ringrazia ancora tutti per essere lì a fare festa con lei. Oh cara, non c’è di che. Il secondo momento è quello lacrimuccia, quando chiede al pubblico di prometterle di essere sempre loro stessi, di non farsi fregare da nessuno e di spaccare. In fondo io stessa l’ho appena chiamata culona, come se dell’aspetto fisico di qualcuno me ne dovesse fregare qualcosa, quindi chissà quante ne avrà dovute sopportare.
Chiude con “Starships” e un vortice di coriandoli dorati, in tinta con il suo outfit, si abbatte sulle nostre teste.
Lo show dura un’ora, ma ormai sembra che far durare i concerti solo un giro esatto d’orologio vada di moda (vero Franz Ferdinand and Sparks al Goa Boa?) Io e i miei amici ne usciamo tutti soddisfatti. Provateci, ogni tanto, ad andare ai concerti a cuor leggero e senza pretese, magari potreste persino riuscire a divertirvi.