Che sensazione quando i tuoi pupilli iniziano ad essere conosciuti da molti, quando perdono il fascino quasi carbonaro della band per pochi eletti, qualcosa inizia ad incrinarsi e nulla è più come prima. Che l’indie, un tempo linguaggio segreto, sia diventato adesso codice universale, è un dato di fatto che può certo essere triste, ma di sicuro porta dei vantaggi, uno dei quali l’attenzione dei locali alla scena, che ci regala una quantità di concerti di genere solo qualche anno fa impensabile.
Colpisce però che due band con intenti così diversi e così diversamente ispirate siano state invitate a condividere un palco senza dubbio importante, ottenendo come unico risultato di dividere la serata in due tronconi caratterizzati da un proprio stile, pubblico e suono totalmente diversi e incompatibili.
I primi in scaletta sono gli Okkervil River e non ci fanno mancare niente: attaccano con “Plus Ones”, usata come trampolino di lancio per tutto il resto del concerto, incalzante e pieno come già ci avevano abituati in passato. Particolarmente interessante la nuova simbiosi fra Sheff e Pestorius, il quale non sfigura al momento di cimentarsi con “Lost Coastlines”, eredità imponente dell’ex Jonathan Meiburg, e in generale con tutta la band, in gran parte nuova ma già ampiamente rodata. Uno dei momenti più belli e intensi di tutto lo show rimane senza dubbio il finale di “Our Life Is Not A Movie Or Maybe”, perso in un mare di distorsioni dal quale emergono le note di “For Real”, uno dei pezzi più cari ai fan di vecchia data. Grandi indugi sul vecchio repertorio, in ogni caso, cosa che non può che far piacere, e presenza scenica da vendere. Quando ci lasciano con “ Unless It’s Kicks” sembra che siano passati dieci minuti dall’inizio della serata e ci rendiamo conto che non ci saranno bis solo quando li vediamo uscire di nuovo sul palco per smontare i loro strumenti, in un raro esempio di modestia.
Poco modesti i Black Keys, invece, che si fanno aspettare per quasi un’ora e, quando salgono sul palco, propongono qualcosa che non è molto diverso, nè per intenti nè per originalità di riff o di ritmiche, da quello che i Cream proponevano nel 1966 o che The Jon Spencer Blues Explosion ci aveva insegnato a riscoprire negli anni novanta.
L’idea che molta della gente fosse lì solo per l’hype che circonda la band di Akhron, fra l’altro a mio parere totalmente ingiustificato, non riesce a non farsi strada nella mia mente.
Questa seconda parte della serata non convince. Risulta ripetitiva già la terza canzone, identica alla prima e poi a molte altre, e dopo un’ora si ha la sensazione che sia stato ripetuto all’infinito lo stesso riff blueseggiante e gli stessi stacchi di batteria. Una band senza dubbio senza idee.
Questa serata è stata forse il risultato di un abbinamento poco riuscito, anche se coraggioso, probabilmente dettato solo dall’esigenza di riempire un posto così grande: nè con gli uni da soli, nè con gli altri sarebbe stato possibile.
Allora, però, torniamo ai concerti nei piccoli club, non fateci un’altra volta sorbire mostri a due teste di questo genere, che ricordano pericolosamente i concorsi per giovani band emergenti in cui dopo un gruppo ska ne compare uno di invasati del progressive.
Francesca Stella Riva