Pat Metheny Orchestrion Tour – Sala S.Cecilia, Roma 17 marzo 2010

…e’ un matrimonio ma senza la sposa, oppure un funerale senza il morto, oppure ancora un trapezio che ruota con grazia nell’aria, ma il trapezista non si vede… ma andiamo per ordine, poi mi direte se sono del tutto impazzito oppure no.

Pat Metheny (Missouri, 1954) è un grande artista, capace di raccogliere consensi da un pubblico che va ben al di là della schiera dei classici  jazzofili. La sua musica ha spaziato, nel corso della sua lunga e gloriosa carriera, dalla fusion all’elettronica, dalle colonne sonore di film a situazioni unplugged, da formazioni in trio ad ensamble orchestrali. Il suo Pat Metheny Group ha visto, negli anni, radunare folle e consensi che sono più tipici di una rock star che di un virtuoso del jazz e dell’improvvisazione.
Ma uno degli aspetti che Metheny ha sempre tenuto in primo piano è un uso disinvolto e spinto della liuteria, dell’amplificazione dei suoni e della tecnologia: dalla chitarre custom ai guitar synth, dai digital delay al MIDI, dalle sovraincisioni a… Orchestrion.

La prima mezz’ora della lunghissima serata (Metheny è sempre stato artista molto generoso nei tempi dei suoi eventi dal vivo) è stata dedicata a brani di sola chitarra. In verità le chitarre sono state varie: acustiche, semiacustiche, la sua Pikasso ( oggetto dalle sembianze molto più vicine ad un’immagine cubista che ad uno strumento musicale) con le quali  ci ha intrattenuto con le sue linee fluidissime e filanti, le sue posizioni aperte ed originali, i suoi pattern sui quali generazioni di chitarristi si sono esercitati.
Abbiamo ascoltato anche una versione di Unity Village (da Bright Size Life) nella quale si è prima accompagnato da solo e poi, sulla base creata in tempo reale, ha iniziato ad improvvisare.
Ma restava il mistero di quegli scatoloni che ingombravano il palco, di quei teli che coprivano  una struttura metallica che incombeva anche  un po’ minacciosa.
Il mistero si è presto svelato: ogni elemento di tale struttura  conteneva, pezzo per pezzo, gli elementi di un set completo di batteria e percussioni. Marimbe e vibrafono, oltre ad altri oggetti strani hanno cominciato a muoversi.

Una scena dove il geniale chitarrista sembrava uscito fuori da un capitolo de “L’invenzione di Morel” oppure, se amate il cinema, da  una scena a metà tra “Blade Runner” di Ridley Scott  e  “Casanova” di Federico Fellini.
Metheny ci ha spiegato che questo Orchestrion è la realizzazione  di un vecchio sogno: suonare come in un enorme carillon, una sorta di piano a rulli come quello che, nella sua infanzia, faceva girare e girare  nella casa di suo nonno.
Lo affascinava questa idea di suonare e memorizzare queste basi: la tecnologia ha reso ciò possibile attraverso una complessa rete di solenoidi, controlli, trigger, stantuffi e quant’altro.

Vi dirò: giusto Metheny poteva mettere su tutta questa parafernalia senza precipitare nel ridicolo. Anzi, perfezionista com’è, il Nostro se l’è cavata benissimo a governare questa creatura frankensteiniana, a trasformare tutta questa girandola meccanica in qualcosa di bello, che suscitasse emozioni (cosa che di solito dovrebbe fare, l’Arte).
Del resto la musica ha bisogno di cambiamenti, di sfide. E di fronte ad una sfida siamo. Solo che non so quanto questa idea possa essere spinta avanti ulteriormente. Alla fine la sensazione che provavo era quella che vi ho descritto all’inizio:  un matrimonio senza la sposa…
Mi mancavano i componenti del PMG, mi mancavano gli assoli di Lyle Mays, la voce di Pedro Aznar, il contrabbasso di Steve Rodby, la batteria di Paul Wertico. Alla fine, al di là dell’esercizio di stile, bello ma accademico, si veniva a creare, in che vi scrive, un’acuta sensazione di solitudine.

Non di sola meccanica vive l’uomo, direi. Anche se assistere a questo esperimento, alla Pat Houdini, se consentite il gioco di parole, è stato comunque molto bello.

Marco Lorenzo Faustini

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