Che la data allo Stadio Olimpico di Roma fosse speciale per i Pearl Jam si respirava nell’aria già da qualche giorno, come una sorta di elettricità che si percepisce, senza conoscerne l’origine e ovviamente le conseguenze. La terza tappa della leg italiana del World Jam Tour 2018 in effetti, è stata per molti versi qualcosa di epico, considerando soprattutto gli antefatti e il contesto in cui si è svolta.
Primo tema, già parzialmente risolto durante il concerto di Padova dello scorso 24 giugno, è la voce di Vedder. Nella capitale c’è, in tutto il suo splendore e la sua potenza, a supporto di quel gran cuore che soprattutto durante lo show di Milano (come sappiamo minato da qualche ‘problemino’) è più in vista che mai. Inoltre, i Pearl Jam non si esibivano a Roma da qualcosa come ventidue anni. Un’eternità. Nel corso della serata, è stato evidente come i Nostri non fossero solo visibilmente emozionati, ma anche desiderosi di recuperare il tempo perso, e soprattutto di dimostrare al mondo la loro rilevanza nel rock, e che i problemi alle corde vocali del frontman fossero solo un incidente di percorso del tutto ininfluente.
La terza e ultima data italiana della band di Seattle è stata senza ombra di dubbio una delle più lunghe della propria storia in Italia (circa tre ore e quindici minuti) e una delle più costellate di cover in assoluto. Da “Black Diamond” dei Kiss (cantata da Matt Cameron) alla sentita ed emozionante “Comfortably Numb” dei Pink Floyd passando per “Imagine” di John Lennon. Mi aggancio a questo ultimo pezzo per una considerazione sulla portata del personaggio Vedder, che negli ultimi anni ha raggiunto livelli stratosferici (anche al di fuori del circuito rock propriamente detto, grazie in particolar modo all’esplosione mediatica di “Into the Wild” e della relativa colonna sonora). Il trittico composto appunto dalla sopracitata “Imagine” , da “Sleeping By Myself” e “Just Breathe”, mi sono parse una trasposizione del concerto solista di Vedder durante il Firenze Rocks dello scorso anno, quasi a sdoganare il fatto che il cantante potrebbe benissimo tenere in pugno stadi interi in solitaria, senza i suoi compagni di viaggio. Anche se ammettiamolo, sia Matt Cameron che Mike McCready sono le vere colonne portanti della band, Vedder a parte.
Andando oltre le considerazioni sulle cover e su Vedder solista, la scelta dei brani presenti in scaletta ha sì accontentato tutti, pur senza far impazzire i fan di vecchia data o i veterani dei concerti della formazione. Paradossalmente, pur nella sua durata ridotta, il concerto milanese ha offerto più chicche (come “I Got Id” e “Footsteps”), una delle quali, quella “Mankind” cantata da Stone Gossard, è stata riproposta anche a Roma. Ma complessivamente, la setlist da greatest hits è stata una scelta vincente, se non altro a livello di coinvolgimento globale, tanto da far esclamare a un certo punto a Vedder “sembra che ci sia un’altra band a esibirsi qui davanti a noi”. A proposito di discorsi, il frontman si è sforzato ancora più del solito a parlare in italiano, a voler sottolineare maggiormente il legame con la nostra terra, e in particolar modo quando pretendeva che nessuno si perdesse messaggi importanti (vedi il discorso politico poco prima di “Imagine”).
Che i Pearl Jam siano all’apice della loro carriera e della loro notorietà è un dato di fatto, tanto che potrebbero permettersi il lusso di andare avanti ancora anni senza pubblicare nuovi dischi. Il concerto di Roma è stata proprio la dimostrazione di questo concetto, oltre che una prova di forza e un (ri-)posizionamento ben saldo e definitivo ai vertici della catena alimentare del rock moderno. Sarà interessante seguire l’evoluzione della carriera dei Nostri, e vedere fin dove potranno e vorranno spingersi. D’altronde, “it’s evolution, baby”.