2019, schiavi dei ritmi frenetici e di una cultura sociale in cui l’istantaneità e l’iperconnessione la fanno da padrone, non siamo più abituati a prenderci il giusto tempo. Con l’avvento massivo delle piattaforme di streaming, anche la fruizione della musica si è fatta sempre più rapida e soggetta a una velocità di ascolto che plasma il giudizio sulla prima, velocissima impressione: gli album che superano i 40 minuti sono diventati una rarità, una traccia si giudica dai primi 30 secondi e le playlist battono i dischi in termini di ascolti. Allo stesso modo la durata dei live si modula attorno alla nostra soglia di attenzione (scarsissima, tra una story e l’altra) e quando ci troviamo davanti a un live che supera l’ora e mezza, il nostro organismo viene destabilizzato, confuso. Se come me avete qualche problema con i tempi dilatati, è probabile che vi siate sentiti quindi destabilizzati se, prima del live dei Pixies alle OGR di Torino, siete andati a curiosare tra le setlist delle date precedenti: scalette interminabili da oltre 30 brani che sono da anni il marchio di fabbrica dell’iconica band alternative, celebre non solo per la carriera longeva ma anche per le maratone di pezzi concentrati in due ore di live.
Freschi dell’uscita di “Beneath the Eyrie“, Black Francis e soci approdano nella location post-industriale delle Officine Grandi Riparazioni dopo aver raggiunto l’ennesimo sold-out. Chi è riuscito ad accaparrarsi l’ambito ticket si affolla sotto il palco in un’amalgama di età e umanità totalmente eterogenea che raccoglie fan provenienti da almeno tre decadi diverse.
Dal primo accordo i Pixies mettono subito in chiaro che questa sarà una serata all’insegna delle care vecchie chitarre ed è così che inizia il tour de force di brani che la band di Boston infila uno dietro l’altro senza un momento di tregua e senza spazio per convenevoli.
In perenne controluce, il quartetto capitanato da Francis ripercorre l’intera discografia della band, ritagliando il giusto spazio per nuovi arrivati come “On Graveyard Hill”, “Catfish Kate”, “Ready For Love”, “St. Nazaire” che si accomodano discretamente di fianco a hit immortali come “Hey”, “Monkey Gone To Heaven”, “Debaser”, “Here Comes Your Man”. Ogni pezzo è una scarica di energia che attraversa il corpo e ci fa dimenare in modo più o meno scoordinato e l’entusiasmo e la partecipazione del pubblico sono palpabili.
Scuotiamo la testa e ondeggiamo a tempo di musica dissimulando la nostra impazienza riguardo all’arrivo di quella traccia che dai, insomma, stiamo tutti aspettando. Quella canzone che che ormai ci si è impressa in testa con un condizionamento al limite del pavloviano e che ci rimanda subito alla scena finale di Fight Club (SPOILER) tra visioni apocalittiche di palazzi che crollano. Ora, immagino che per i Pixies “Where Is My Mind?” sia diventata un po’ come “Creep” per i Radiohead: “Ehi ragazzi abbiamo fatto un sacco di altri pezzi grandiosi, perché siete ancora fissati con questa roba super inflazionata?” e mi immagino anche il fastidio nel dover riproporla in setlist giusto per accontentare chi ha comprato il biglietto del live solo per sentirla. Anticipata da quell’attimo di silenzio catartico che ci fa dire “Ok, è il momento”, “Where is my mind?” viene masticata rapidamente dal microfono di Francis con quello che sembra un disprezzo sincero. Ma magari è solo un’impressione (anche se il pezzo dopo viene eseguito perfettamente, le parole ben scandite).
Il live prosegue a ritmi serratissimi, lasciando pochi istanti di silenzio solo in corrispondenza dei cambi di chitarra e arriva alla conclusione in un costante crescendo che culmina con “No 13 Baby”, ennesimo brano testimone dell’uscita discografica più iconica della band. Sopravvissuti a oltre 30 anni di carriera, a vari cambi di formazione, a uno scioglimento, una reunion e a una nuova uscita discografica, i Pixies tirano caparbiamente dritto per la propria strada portando lo stendardo del rock altissimo e fregandosene altamente di adeguarsi ai nuovi tempi di fruizione della musica. Due ore di live e oltre 30 pezzi dopo, la band di Boston ci rimanda a casa con le gambe a pezzi e i capelli scompigliati ricordandoci cosa vuol dire vivere davvero un concerto.
Fotografie a cura di Daniele Baldi