PJ Harvey è un’artista folk, nel senso più intimo e letterale del termine. Lo dimostrano i suoi ultimi due progetti discografici, “Let England Shake” e “The Hope Six Demolition Project”, frutto di una ricerca sonora, partita dall’album del 2007, “White Chalk” e con la quale PJ ha allargato i confini del suo alternative rock, fino a lasciarli sbiadire in un incontro coi suoni della tradizione popolare, della sua terra prima e poi del mondo. Intendiamoci, il dna è sempre quello della dea alt rock di cui ci siamo innamorati nei primi ’90 con “Dry”, “Rid Of Me”, “To Bring You My Love”, fino a “Stories From Te City, Stories From The Sea”, ma per forma e contenuto la musica prodotta nell’ultimo lustro dalla cantautrice britannica è folk. Lo confermano il B-side “Guilty” estratto dalle session di registrazione alla Somerset House e il muro di suono creato dalla fanfara di dieci elementi (e che elementi!), che domenica 23 ottobre 2016 ha ipnotizzato l’Alcatraz di Milano, prima delle due date italiane – la seconda all’Obihall di Firenze – di un tour mondiale che terminerà a gennaio in Australia.
Un’ora e mezza abbondante di spettacolo, per una scaletta di venti pezzi, tratti per lo più dagli ultimi due dischi. Difficile integrare i pezzi degli album precedenti, ma non impossibile. E infatti tra i brani dell’ultimo “The Hope Six Demolition Project”, suonato integralmente, e il trittico “The Word Thak Maketh Murder”, “Glorious Land” e “Let England Shake”, estratto dall’omonimo disco e calato nel bel mezzo del materiale nuovo, vivono pezzi più datati come “The Devil” o “When Under Ether”, da “White Chalk”, nei bellissimi nuovi arrangiamenti. Da un passato più remoto, invece, arrivano la spasmodica pulsazione di “50ft Queenie” e le attesissime “Down By The Water” e “To Bring You My Love”. Si dice che una bella canzone possa essere arrangiata in mille modi diversi senza smettere di essere bella. Ecco, nella loro nuova elegantissima veste, che ne smussa gli spigoli, ma non la morbosa intensità, queste rimangono chicche da ascoltare in religioso silenzio.
Polly Jean è il polo magnetico attorno a cui ruota una rappresentazione, in cui teatralità ed essenzialità convivono in un’armonia superiore, dove ogni elemento è parte imprescindibile del tutto. Da un progetto nato dalla serie di viaggi, che hanno dato vita al libro di foto e poesie “The Hollow Of The Hand”, ci si poteva aspettare un richiamo ai bellissimi scatti di Seamus Murphy nelle scenografie e invece no, il rituale si svolge ai piedi di un muro grigio. È la musica al centro di tutto. PJ è stata chiara sin dal principio, il progetto è uno, ma come nei reading non è mai entrata la musica, nei concerti non entra il libro, versi o immagini che siano. Adornata di livrea e copricapo di piume nero corvino – quasi a suggerire una terrena personificazione del dio Ermes, psicopompo, messaggero degli dei e dio, tra il resto, dei confini, dei viaggiatori, degli oratori, dei poeti e della letteratura in genere – Polly Jean è voce principale di un insieme corale, nel quale in assenza del cantato rientra spesso allineandosi agli altri fiati col suo sax (il solo strumento imbracciato nel corso della serata).
Sul palco con lei nove musicisti tra percussioni, fiati, tastiere e chitarre. Gente spessa, presentata da PJ nell’unico scambio verbale con l’affollatissima platea dell’Alcatraz, tra cui svettano il collaboratore di vecchia data John Parish alla chitarra elettrica, cori e percussioni; il Bad Seed Mick Harvey alle tastiere e cori; Alain Johannes (QOTSA, Mark Lanegan ecc. ecc.) alla chitarra elettrica, cori e percussioni; e i Nostri “Asso” Stefana alla chitarra ed Enrico Gabrielli al clarino basso, flauto, tastiere, cori e percussioni. Tonnellate di maestria chiamate a produrre la singolare pasta sonora di “The Six Hope Demolition Project”, un’appagante esperienza sensoriale, coronata dalla classe e dall’eleganza di una PJ Harvey sempre più profondamente ribelle e in grandissima forma vocale (ridendo e scherzando il donnino copre più di tre ottave) e fisica (tralasciando la vertiginosa minigonna, vedendola muoversi sul palco le si darebbero al massimo 35 anni, mentre di candeline lei il 9 ottobre ne ha spente 47).