In un sabato sera ricco di concerti da non perdere, il 23 novembre 2013 anche i Placebo mobilitano migliaia di fan che convergono all’Unipol Arena di Bologna. Cosa aspettarsi da un’esibizione della band capitanata da Brian Molko? Di sicuro nessuno slancio d’affetto verso il pubblico, ma neanche l’ansia di stupire. Al limite potrebbe essere più giustificato il timore della platea di non piacere a Brian. D’altra parte il rapporto con l’Italia è sempre stato abbastanza difficile. Si può partire dall’apparizione della band al Festival di Sanremo del 2001, conclusa con una violenta reazione del frontman di fronte ad un pubblico decisamente ottuso, e arrivare al recente e imbarazzante passaggio a “Quelli che il calcio…” con un Nicola Savino che si presenta come “Sono Nicolah the Rock’n’rolah” e sbaglia totalmente l’interpretazione del messaggio veicolato dall’ultimo singolo. Nice job Nick!
Cosa aspettarsi dunque? Uno show ricco di vanità, ma anche musica senza fronzoli. La meravigliosa contraddizione di avere di fronte un artista pieno di sè che vuole però lasciare alla propria musica tutte le attenzioni.
Alle 21 in punto si inizia. Il palazzetto è pieno zeppo e fin dall’attacco di “B3” si intuisce che nessuna delle due parti resterà delusa. Non c’è bisogno di incitare nessuno, il pubblico è perfettamente coinvolto e la chimica instaurata con il trio inglese è buona. Dopo il singolone “Loud Like Love”, titletrack dell’ultimo album, il legame puramente empatico lascia un po’ di spazio ad una prima dose di comunicazione verbale: “grazie e buonasera!”. Briciole che fanno esplodere la folla. A seguire la doppietta che già da sola varrebbe il prezzo del biglietto: “Twenty Years” e “Every You Every Me”. Il resto della scaletta promuove sapientemente l’ultima fatica discografica, a partire da “Too Many Friends” in cui il pianoforte di Stefan Olsdal regala un intro da brividi. Ed ecco la seconda contraddizione, un po’ meno meravigliosa: suonare un brano che ha l’intenzione di ammonire le persone schiave della tecnologia (Nicola Savino, prendi appunti) mentre una moltitudine di flash e cellulari in ripresa video si stagliano davanti agli occhi dei performer. E allora la strofa “When all the people do all day is stare into a phone?” diventa “When all YOU people do all day is stare into a phone?”. L’enfasi su “YOU” l’abbiamo sentita tutti, no?
I brani successivi rallentano il ritmo e mettono ancora una volta in evidenza ciò che Steve Forrest, giovanissimo batterista californiano tutto tatuaggi ed energia, appare agli occhi dei più attenti: un leone in gabbia. Ciò in realtà rimane relegato alle sensazioni personali, poiché da ogni sua scelta (l’allontanamento dagli Evaline) e ogni dichiarazione si evince che i Placebo sono ciò che ha sempre desiderato. Curiosa la scelta di arricchire l’altrimenti povera scenografia con una sorta di rete semitrasparente che, a intervalli regolari, cala a dividere palco e parterre, offuscando leggermente la visuale ma concretizzando probabilmente quella che è la visione intima di Brian Molko, il distacco tra il suo mondo e quello esterno. O forse volevano semplicemente trollare tutti e chi scrive si sta facendo viaggi mentali per nulla, non è dato saperlo.
Sulle note di “Song to Say Goodbye” e “Special K” il pubblico si anima, liberandosi in un pogo abbastanza composto nelle prime file, e contagiando anche chi sta sul palco, che conclude con “The bitter end” un trittico perfetto, segmento migliore della setlist. Infine l’encore di quattro brani non regala particolari picchi emozionali, se si esclude l’eccezionale cover “Running Up That Hill”, perla su disco e perla dal vivo.
A giudicare dalle ulteriori briciole finali concesse da Brian, sbilanciato in un ampio sorriso, e dai fragorosi applausi degli spettatori, il rapporto con il pubblico italiano ai concerti è ben diverso da quello delle apparizioni televisive. E meno male! Perché dopo poco meno di due ore di grande musica ciò che rimane è l’evidenza del gran valore di una band che ha ancora molto da offrire.
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