Placebo, le foto e il report del concerto a Verona del 20 maggio 2015

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Il tour mondiale dei Placebo riparte dall’Arena di Verona il 20 maggio 2015, ad un paio di mesi dalla conclusione della leg britannica.
Ho sempre avuto l’impressione che ad un concerto dei Placebo fosse il pubblico a dover convincere e soddisfare Brian Molko, e non il contrario. Un po’ come se la premessa fosse: “La mia performance sarà perfetta, come sempre, se non la apprezzate non siete adatti al vostro compito di pubblico”. Un concetto un po’ contorto forse, ma sempre avvalorato dall’atteggiamento del frontman britannico sul palco. Spavaldo, consapevole, intimorente e mai timoroso. E d’altra parte, una rockstar in che altro modo dovrebbe essere? Certo, ma Molko ha saputo nel tempo ridefinire i confini del suo status, uscendone sempre da vincitore.

Eppure l’Arena è l’Arena. Lo è per tutti, ed i navigati Placebo non fanno eccezione. Perché è quella venue talmente bella da rivaleggiare con gli artisti nella lotta per l’attenzione. Finché c’è ancora un filo di luce naturale ad illuminare, l’Arena sfoggia una delle sue armi più letali: alzando lo sguardo verso l’alto si ha l’impressione di essere all’interno di uno di quei souvenir semisferici in vetro, con il suono a prendere il posto della finta neve.

Davo i Placebo vittoriosi fin dal primo minuto, eppure l’ansia da prestazione pare l’abbiano accusata anche loro questa volta. L’avvio dello show è un po’ fiacco, se non altro perché è anche il pubblico ad essere un po’ spento e distratto. Si comincia con “B3” e “For What It’s Worth”, andando anche un po’ sul sicuro, ma alla band manca mordente e Brian cerca di smuovere le cose con un ovvio e necessario intervento. “Ho cominciato a fare rock perché non ci sono regole, ma col tempo mi sono reso conto che una sola regola c’è: non si può stare seduti ad un concerto rock!”. E finalmente i posti a sedere in bassa platea diventano solo un modo per riempire con ordine il parterre. Ma c’è ancora qualcosa che non va: un Brian stranamente un po’ più insicuro sfoggia un “grazie, grazie mille” alla fine di ogni brano e durante i pezzi invita addirittura il pubblico al battito di mani (mansione normalmente affidata a Stefan Olsdal).

“Loud Like Love” si conferma una grande inno dal vivo, mentre “Every You Every Me” perde qualcosa, forse anche per i suoni pasticciati. All’Arena? Non è accettabile. Brian si sbraccia, dà indicazioni. Vuole che la sua voce si senta di più ed il basso di Stefan ha bisogno di più focus. Che succede Brian? Hai tutto sotto controllo?

Finalmente con la storica “Twenty Years” cambia tutto. Forse perché quel pezzo è la risposta migliore alla pietra ipnotica della cornice che li ospita, forse perché Brian ricomincia semplicemente ad essere Brian. “Too Many Friends” è l’occasione per punzecchiare i presenti con il suo brillante sarcasmo e il sing-along è finalmente assordante. Da qui è tutto un crescendo e con i tre brani prima dell’encore i Placebo mostrano i muscoli: “Song to Say Goodbye”, “Special K” e la dirompente “The Bitter End”, che fa tremare anche la solida pietra. Molko poggia i pugni sui fianchi e guarda fiero il suo pubblico mentre i decibel salgono. Non dice più “grazie”, nessun gesto ad incitare.

Ancora quattro brani per il bis e quando arriva “Running Up That Hill” (che è una delle cover più belle e riuscite della storia della musica) la sensazione è che si potrebbe essere in qualunque altro luogo e i brividi coprirebbero ugualmente ogni centimetro di pelle. Ad “Infra-red” il compito di dare il colpo di grazia e concludere uno show romanticamente sofferto.

So che è strano pensare ad un posto così come ad un antagonista, ma questa magica location è così. O la sposi fin dall’inizio e la rendi tua alleata, oppure ti ci devi misurare e la devi domare. E i Placebo, con qualche difficoltà iniziale, ma con la loro musica come arma vincente, riescono a concludere la serata con il sorriso sul volto e il boato del pubblico. Avevo scommesso sul giusto finale del thriller.

Fotografie a cura di Mathias Marchioni

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