Serata ricca al Circolo degli Artisti – e dov’è la novità? Sbarca a Roma il trio americano Pontiak, in giro a promuovere l’ultimo album Innocence, fuori da qualche settimana. In loro supporto due band, entrambe italiane.
Le danze le aprono i Rubbish Factory, duo chitarra-batteria che ha deciso – a ragione – di girare a largo delle note coste del garage-rock, evitando gli scogli del cliché facile, e virando lì dove le acque si confondono con il grunge e lo stoner. La loro può essere considerata una scommessa: si può infatti interpretare un genere così pesante senza innalzare invalicabili muri di suono? A quanto pare sì: certo, bisogna aguzzare l’ingegno, introdurre elementi di novità: il duo sfrutta allora le pause in maniera intelligente, tra sospensione e continuità, sì che risulta difficile comprendere dove finisca un brano e inizi l’altro. Ad evitare eventuali e troppo facili paragoni con Queens of the Stone Age e compagnia, interviene un secondo interessante elemento: l’utilizzo delle voci: ben armonizzate, dal convincente andamento melodico, poggiate su registri alti, tanto che quando parte una sorprendente cover di Idioteque dei Radiohead la scelta non appare affatto fuori luogo, anzi, la versione particolarissima è ben accolta dal pubblico. Non male.
Seguono a ruota i Thee Elephant, di cui abbiamo recentemente parlato su queste pagine in occasione dell’uscita del loro debutto omonimo. Dopo un inizio noisy un po’ confuso e tutto sommato fuori luogo parte lo show: il primo elemento che mi sorprende è la venatura decadente della voce di Dola J, spesso trascinata e profonda, à la Jim Morrison. La band si scalda, pian piano, e inizia a crescere di intensità: In Love Again, I’m a Loser e That’s Beyond the pale creano una lunga e inesorabile curva dinamica che trova il culmine proprio nel brano finale, Here for you, con una prolungata coda che prevedibilmente viene distorta con dissonanze, rumorismi ed un finale psych. Carini, ma non impressionanti.
Arriva finalmente il turno degli headliner, i Pontiak. La sala non è gremita, ma ce n’è in abbondanza per fare un gran casino. Esordiscono con un cortese “Buonasera” e subito dopo brindano con un cicchetto di Sambuca che mandano giù d’un fiato: è già il caos: Ghosts, Shining, Skull Skills e Surrounded by Diamonds accendono immediatamente il pubblico: i ragazzi sono tre, ma sembrano essere di più. A dispetto di quanto ascoltato su disco il live mette in rilievo una piacevole somiglianza con i Motorpsycho: per il sound, per l’approccio con il pubblico – definito più volte awesome –, per la simpatia e per la capacità di alternare momenti di pura carica rock e sfuriate stoner a momenti più intimi e sospesi, come Part III, Royal Colours e la bellissima It’s the greatest. Del resto è difficile ridurre la band a qualche inutile definizione di plastica: la loro duttilità è evidente, e si riflette in sala con la presenza di un pubblico molto eterogeneo nell’età e nello stile di vita. Possono essere morbidi (Part III), cattivelli (Lawered), delicati (Expanding Sky), e finanche rampanti (White Hands).
La performance si chiude con una carichissima serie di bis: Lack Lustre Rush, Innocence, Lions of Least, Beings of the Rarest confermano la scelta di attingere indiscriminatamente da tutta la loro discografia, vissuta in circa 90 minuti totali di concerto. Il bilancio: pubblico conquistato e banchetto invaso dalla folla. Da vedere.
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