Retro-guarde. Potrebbe essere definito così il concerto italiano dei Postmodern Jukebox tenutosi il 4 aprile 2017 nella Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica di Roma. Una serata umida e difficile, se non altro per il traffico in contrasto con il derby di Coppa Italia: ma il collettivo di cantanti e musicisti inventato dal pianista Scott Bradlee (assente nella data romana) ha offerto uno show straordinario dal punto di vista del virtuosismo, forse un po’ meno in termini di cuore e intensità. Sembra complicato da spiegare ma saprò essere molto chiara.
Cinque cantanti – LaVance Colley, Maiya Sykes, Robyn Adele Anderson, Von Smith, Sara Niemietz – piano, contrabbasso, batteria e una piccola sezione fiati con due persone a coprire tre strumenti. Una ballerina di tip tap a intervalli regolari. Scenografia ridotta, solo un tendone da vaudeville dietro le spalle: quello che deve parlare al cuore degli spettatori accorsi numerosi (la sala è quasi piena) non sono certo le luci.
Alle 21.10, puntuali, i musicisti salgono sul palco incalzati dal battimani del pubblico. “Come state tutti, che belle persone siete” dice LaVance Colley, speaker di una serata che è un viaggio nel tempo, “quando autotune significava cantare intonati” ironizza LaVance nel microfono. Fa tutto parte dello show, naturalmente.
Robyn Adele Anderson è la prima a salire sul palco con “Call Me Maybe” di Carly Rae Jepsen in versione charleston, accompagnata dalla ballerina. Ingresso ben riuscito, che mostra subito le intenzioni del collettivo: stupire a botte di spettacolo vecchio stile cui non siamo più abituati.
Lo show comincia così: un cantante per pezzo, ambientazioni rievocate, cori facili su brani straconosciuti. Con Maiya Sykes si cambia subito registro: “I’m Not the Only One” di Sam Smith viene stravolta tra vocalizzi e swing, assoli di clarinetto e trombone sostenuti dal batterista che esce dal suo guscio per accompagnarli con il rullante. Maiya è una virtuosa vera e nella coda finale dispiega ogni millimetro delle sue corde vocali.
Tutto il concerto è impostato su vette elevate di virtuosismo. Arriva “Cry Me a River” di Justin Timberlake lasciata nelle grinfie del piacione Von Smith, che vocalmente si installa sull’originale arrangiata come una ballad jazz. Von decolla rapidamente verso le vette dell’imitazione palese di Jeff Buckley, nume tutelare di molte voci maschili dell’ultimo ventennio.
Molti brani sono superinflazionati ma i battimani ci sono sempre e comunque. Peccato che le luci non seguano la musica e alla fine sia tutto molto statico, dando quasi l’impressione che in fondo i video su Youtube, con la loro inquadratura fissa, fossero decisamente meglio.
Finite le staffette di presentazione iniziano i duetti: le tre fanciulle interpretano “Bye bye bye”, il brano che ha trasportato i PMJ in cima al Youtube grazie al video con lo strepitoso Tambourine Guy che stasera però non c’è. La sua mancanza è un colpo al cuore, anche se la resa è sempre bella. Si assiste ad una sorta di straniante salto nel tempo, tra vintage e avanspettacolo.
Il presentatore della serata LaVance Colley sale a cantare: la sua versione shoobop shoobop di “My Heart Will Go On” è divertentissima perché smonta completamente il melodico tronfio dell’originale. Sulle gradinate della sala Sinopoli qualcuno inizia a ballare, tra il pubblico ci sono molti amanti del genere e non si contano le ragazze abbigliate vintage o in stile pin up. Il che rende ancora più straniante la sottoscritta in anfibi e jeans strappati.
“Thrift Shop” di Macklemore è tutta per Robyn (il suo italiano da siparietto è molto ben riuscito) e Von che la trasformano in un pezzo da orchestra swing, mentre “Hey Ya”, forse la meno efficace delle versioni perché elimina la potenza di fuoco ballerina dell’originale, è affidata al trio Sara-LaVance-Von (i maschietti ai cori). Per la celeberrima “All About the Bass” di Meghan Trainor , dove è ovviamente protagonista il contrabbasso, c’è la staffetta tra Sara e Maya, presto raggiunte da Robyn per il trio finale. Inutile dire che i pezzi migliori sono trombonista e il clarinettista che, sullo sfondo, prendono in giro le tre colleghe.
Momento alto con LaVance, solo con piano e contrabbasso per “Halo” di Beyoncé, dove il cantante apre con tutta la sua incredibile vocalità e falsetti oltre il muro dell’ultrasuono. Standing ovation giustamente meritata, così come se la merita Maiya per una versione senza freni di “Creep” dei Radiohead. Siamo sempre dalle parti del “ti faccio vedere quanto sono bravo”.
I Postmodern Jukebox sono un fenomeno di Youtube e le loro cover sono sicuramente godibili e divertenti. Però c’è un però: mancano totalmente di cuore. I vocalizzi, i falsetti, i virtuosismi vocali rendono atto allo spettacolo ma non aggiungono una virgola all’emozione. Faccio un esempio scomodando un grandissimo: Jeff Buckley inseriva i vocalizzi nelle sue canzoni dal vivo per introdurre o sottolineare una sensazione, un movimento interno della sua anima che veniva trasposto in voce, e per questo ti emozionava da brividi. I bravissimi cantanti dei Postmodern Jukebox sono voci eccellenti ma i loro vocalizzi sono pura dimostrazione delle loro doti, non delle loro emozioni. Menzione a parte per Maiya, perché con “Creep” è riuscita a far star zitta una sala sempre pronta all’applauso; e soprattutto menzione a Robyn Adele, che almeno evita i virtuosismi nelle sue interpretazioni.
Il pubblico però ha apprezzato con urli e applausi: si sa, il virtuosismo cattura con una facilità estrema perché non siamo abituati. Un vocalizzo ben fatto vale parecchio e qui siamo di fronte ad alcuni cantanti veramente superdotati a livello vocale, spesso più degli stessi originali. I PMJ d’altronde hanno costruito la fama sui rifacimenti studiati nei minimi dettagli e lo show è tutto così: perfetto. Talmente perfetto che alla fine, nonostante il coinvolgimento nel ballo e nei battimani, resta quella sensazione amara di mancanza di cuore nelle interpretazioni. Belle, bellissime, ma fini a se stesse.