Public Image Ltd, le foto e il report del concerto a Milano dell’11 ottobre 2015

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I Pil, la creatura che John Lydon ha concepito, ucciso e infine fatto risorgere, toccano Milano per la seconda data del tour italiano. Una fila interminabile di irriducibili di tutte le età aspetta pazientemente lungo il perimetro dei Magazzini Generali, cornice perfetta per eventi di questo genere, che sanno tanto di rimpatriata tra vecchi amici, chi bevendo una birra e chi raccontando le gesta del viaggio per raggiungere la location meneghina.

Dire che Johnny Rotten è in forma sarebbe una forzatura. Nonostante sia visibilmente sovrappeso e per forza di cose invecchiato, il cantante non ha perso la sua verve e la sua presenza scenica, oltre che lo sguardo spiritato e le movenze da schizzato che sono un po’ il suo trademark. I PiL credono molto nei nuovi pezzi, tanto da inserirne ben quattro in scaletta, a partire da “Double Trouble”, il primo singolo estratto da “What the World Needs Now…”, ultima fatica della band uscita lo scorso settembre, e “Know Now”, a cui è toccato scaldare gli animi in previsione di bombe del calibro di “This Is Not A Love Song”, eseguita in una versione spogliata di qualsiasi effetto elettronico ma super danzerereccia, tanto da tirar fuori a colpi di basso il disilluso che è dentro di noi. Ed è proprio il basso di Scott Firth un altro protagonista indiscusso della serata, che splende martellando i timpani in “Deeper Water”, solo per citare uno dei pezzi con il giro di quattro corde più ipnotico in assoluto. Tra sorsi da una bottiglia di liquido non meglio definito e occhialini da presbite che apparivano e scomparivano come per magia dal viso di Lydon, il set ci porta su un ottovolante di epoche musicali, dal sound super Eighties di “Warrior” agli anni ’70 post punk di “Public Image”, passando per una tirata dissacrante in pieno stile Rotten contro la Chiesa durante l’interminabile “Religion”, che ha visto alla chitarra un’apparizione nientepopodimeno che di Lu Edmunds nei panni di Gesù in persona.

Chi avrebbe mai immaginato che un concerto del genere potesse durare più di un’ora? Io no di certo, ma mi sono dovuta ricredere. Oltre novanta minuti senza perdere un colpo non sono cosa da molti, sia che si parli di novellini che di veterani a fine carriera. E poi provateci voi a dire qualcosa di male a chi vi incita a iniziare la settimana al grido di “anger is an energy”.

Fotografie a cura di Rodolfo Sassano

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