Nella serata investita dalla bufera Radiohead, con una platea stimata in 40-50 mila spettatori, molti dei quali assiepati varie ore prima, gli organizzatori del Primavera Sound si sono divertiti più che mai a mescolare le carte e a mettere in imbarazzo il pubblico.
Sovrapposizioni nel programma che rendano impossibile una gestione delle proprie curiosità sono fisiologiche, ma in perfetta coincidenza con la band di Thom Yorke, ad alcune centinaia di metri era stata fissata una delle performance più attese, con i Dinosaur Jr. alla prova dei fatti confermatisi davvero eccellenti. J Mascis con il suo look sempre eccentrico, mostra di avere ancora un piglio, una acutezza, un furore chitarristico tipici dei tempi migliori e anche il trio sprigiona una spinta notevolissima, che mescola materiali in grado di infiammare la fantasia, come “Just like Heaven”, una cover dei Cure francamente inaspettata. Invecchiano bene i ragazzacci del Massachussets e a trentatré anni dalla fondazione sanno bene come infiammare la platea e azzannarla con suoni lancinanti. Bravi!
Nel frattempo non sono da meno i Radiohead, che ovviamente si esprimono su registri molto diversi, con quella che sarà l’esibizione più lunga del festival, dilatata fino a due ore, come a nessun altro protagonista del Primavera Sound viene concesso. Sul grande, augusto palco vestito dalle insegne e dai colori verdi di una birra qui molto presente, i Radiohead illuminano quel mare di facce e di braccia alzate con un set inappuntabile, forse per taluni un po’ freddo e austero, ma comunque levigato da una classe superba e da un impianto scenografico di luci e di schermi che finisce per colpire anche i più lontani: prima parte incentrata sul nuovo album, fresco di pubblicazione, “A Moon Shaped Pool“, con il seguito, fino alla generosa coda di bis, a ripassare le perle di un repertorio inossidabile. Una garanzia.
Ma il bello della manifestazione sta nel consentire indagini su nomi e realtà decisamente ai confini dell’impero mediatico e del business, per cui ben vengano i drappelli di aficionados che scelgono la star turca Selda Bagcan & Boom Pam, oppure il pianista ucraino Lubomyr Melnyk (che sarà anche un Italia, il 24 luglio, a Naturalmente pianoforte, da non perdere), entrambi in apparenza oltre i limiti di età, vicino ai settanta, ma vibranti e inventivi come loro nipotini anagrafici si sognano soltanto. Rientrano in campo antiche sigle di periodi accesi di creatività, dai Cabaret Voltaire ai Tortoise, entrambi preziosi e raccomandabili, oppure formazioni di più fresco conio, sempre cangianti e adeguate alla circostanza, come le ragazze terribili Savages o Titus Andronicus con il loro robusto rockettone. Gradito anche ritrovare Ben Watt, ricordate “Everything But The Girl”?, forse un po’ leggerino, ma comunque dotato di buone maniere e di una bella confezione.
E tra una novità, come al solito indicata dal palco di Pitchfork, il cantautore folk-soul Moses Sumney, cresciuto tra il Ghana e Los Angeles (da tenere d’occhio) e un comeback, Neil Michael Hagerty, ex Pussy Galore, agitato e scalciante quanto basta, restano da sottolineare due altri appuntamenti di piena soddisfazione: i Beirut, in versione ampia, ariosa, colorata di mille profumi, divertenti e di azzeccata empatia con il pubblico, in una line-up ricca di fiati e di citazioni. E poi, quando la notte avanza verso le prime luci dell’alba Animal Collective e soprattutto The Last Shadow Puppets, smaliziati e forse un po’ piacioni, ma di gran rendimento, grazie a un quartetto d’archi che rende ancora più amabili le tracce del nuovo cd “Everything You’ve Come to Expect”.
E stasera, in un vortice di bellezza e sensazioni forti, su tutti un terzetto di nomi, Brian Wilson con esecuzione di Pet Sound al completo, PJ Harvey e Sigur Rós…
Si ringrazia Enzo Gentile.
Radiohead – La scaletta del concerto al Primavera Sound
Oltre ai cinque brani di encore indicati nella scaletta è stato suonato un secondo bis: “Creep“.