Red Fang, Mezzago Milano, 30 gennaio 2014

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Ci si deve preparare a modo per serate come quella del 30 gennaio 2014, che ha visto avvicendarsi sul palco del Bloom di Mezzago nell’ordine Lord Dying, The Shrine e Red Fang: tre set, tre generi diversi, ma tutto all’insegna del rock’n’roll suonato più o meno pesante.

Ad aprire la prima delle tre date del tour italiano della band di Portland, di ritorno nel nostro Paese a poco più di sei mesi di distanza dalla memorabile performance estiva al Circolo Magnolia, per il Solo Macello Fest 2013, sono stati i concittadini Lord Dying. La band, accasata come gli headliner della serata presso l’etichetta Relapse Records, ha rilasciato quest’estate il primo LP Summon the Faithless. Sul loro conto Aaron Beam (voce e basso dei Red Fang) ha dichiarato: «I Lord Dying portano i riff metal più freschi e puri che abbia sentito negli ultimi anni e, mentre i riff sono implacabili, l’attenzione profusa nella scrittura è ciò che ti spinge ad ascoltarli ancora ed ancora». Esatto. Per un buon giro d’orologio, i “campioni dei pesi massimi del metallo” hanno travolto il Bloom con un fiume in piena di riff granitici snocciolati senza tregua, un bell’inizio, grezzo e sudato, consumato a suon di birrette dai tanti convenuti.

L’atmosfera è calda, il locale pieno e dopo un breve cambio palco è la volta dei californiani The Shrine, in uscita il prossimo 11 marzo via Tee Pee Records con il nuovo Bless Off. Il set del trio, cambia radicalmente gli orizzonti sonori della serata: riff pescati a man bassa dai ’70 di Black Sabbath e Thin Lizzy e tirati all’estremo dalla chitarra di Josh Landau, ora essenziale ora virtuosa, nonché dall’eccellente sezione ritmica, con il basso di Courtland Murphy che sconfina nel melodico, assola e, assieme alla batteria di Jeff Murray, che pompa dalle retrovie presente ma non invasiva, riempie tutti i vuoti in cui una formazione a tre potrebbe sventuratamente incappare, uniti all’attitudine punk hardcore dei tre skateboarder capelloni losangelini, che sul palco di traduce in pura “Psychedelic Violence”, per dirla con loro. Ecco quanto accaduto nell’ora che ha preceduto l’attesissimo set dei Red Fang.

Escono allo scoccare della mezzanotte i quattro barbuti di Portland e senza guardare in faccia a nessuno attaccano con Hank Is Dead, dando il via al pogo che per tutta la durata del concerto coinvolgerà mezza platea, intenso ma fraterno, per poi passare a due pezzi tratti dal nuovo Whales and Leechees, Voices Of the Dead e DOEN ed è qui che, come nella migliore tradizione live dei Red Fang, si inizia a vedere qualcuno fluttuare sopra la folla. Seguono i massiccissimi riff di Throw Up e No Hope e siamo tutti dentro, l’energia è alle stelle e la band suona con la consueta precisione e intensità, nonostante in sala non si senta proprio benissimo (situazione che fortunatamente andrà migliorando nel corso del live). I pezzi nuovi funzionano alla grande dal vivo, ma è il sopraggiungere di un poker di brani “vecchi” che innesca l’incendio: Number Thirteen, Dirt Wizard, Sharks e Malverde. «Voi siete completamente pazzi … e forse anche noi» commenterà Beam, rammentando quanto se la godano ogni volta che vengono a suonare in Italia. Crows In Swine, l’attesa Blood Like Cream e 1516, trittico tratto da Whales and Leeches, anticipano il finale costituito dai due classici Into the Eye e Wires. Ma non scherziamo, manca qualcosa e lo sanno bene i Red Fang, che dopo una breve pausa, rientrano chiamati a furor di popolo e, reso un omaggio ai tempi che furono con Good To Die, attaccano con Prehistoric Dog. Una signora uscita di scena, giunta un po’ troppo presto tuttavia; con tre LP all’attivo, una scaletta di sedici pezzi pare un tantino scarna, ma considerando che dopo lo show Bryan, Aaron, David e John rimangono a lungo a fare foto e firmare autografi ai loro aficionados, per finire a chiacchierarci e bere bionde al bar del Bloom fino alle prime luci dell’alba, li perdoniamo.

Grazie a Cinzia Meroni

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