Lo ammetto. Non conoscevo bene i Reignwolf prima della full immersion in occasione della data esclusiva al Circolo Magnolia di Milano prevista per il 30 ottobre. Qualche canzone inserita nella playlist per andare a correre, letture di recensioni sull’album “Hear Me Out”, pubblicato il primo marzo scorso dopo anni di gestazione, e soprattutto l’amore professato dal mio amico Luca Villa per l’artista che fa da frontman al progetto: Jordan Cook. Canadese classe 1983, talento puro e crudo alla voce e alla chitarra. Una carriera che – partendo platonicamente da una sei corde regalata a Natale all’età di due anni – decolla già da quindicenne, quando collabora con B.B.King per il Montreaux Festival, in Svizzera.
È del 2010 il primo lavoro in studio da solista, “Seven Deadly Sins”, dal contenuto autoprodotto e interessante, calamita di curiosa attenzione. Suona dal vivo, tantissimo. Il suo habitat naturale che lo condurrà a offrire esibizioni sempre più strabilianti, energiche e accostabili a una vera e propria esperienza trascendentale. Caratteristica che spinge persino Ozzy Osbourne a chiamarlo come opening act al tour dei Black Sabbath di cinque anni fa e Ben Shepherd, il bassista dei Soundgarden, ad accompagnarlo in un tour canadese insieme a Matt Chamberlain e a volerlo a Seattle, tempio sacro della musica, dove Cook si trasferisce. Tra un concerto e l’altro, l’urgenza espressiva sfocia in brani inediti – “Are You Satisfied?”, “Lonely Sunday” e “Hardcore” – presentati già su piccoli e grandi, grandissimi palchi, come quello condiviso in apertura ai Pixies e apripista a “Hear Me Out”, i ventinove minuti di prorompente ascolto che fanno credere– e non solo sperare – che il rock non sia per niente morto e può ancora salvarci dalla deflagrazione artistica odierna.
Insomma, tutte le carte in regola per farmi rispondere alla chiamata alle armi del mio fido consigliere e prendere il biglietto. Sebbene il mio arrivo al Magnolia sia costellato dell’agitazione da traffico, umidità e imprevisti milanesi, il tempo di varcare la porta e percepisco già un’aria familiare che lenisce il tutto. Luci soffuse, la giusta playlist e le giuste t-shirt dei Soundgarden qua e là. Alcuni degli amici “dei concerti”, altri con cui hai sempre parlato di musica e che finalmente incontri e poi Luca e Daria, ovviamente. “Beh, ma sembra di essere ritornati alla Seattle degli anni Novanta, un po’ club, un po’ festa del liceo” – è la riflessione a voce alta condivisa. Lo spazio contenuto, il palco incastonato in un angolo, gli strumenti posizionati a puzzle e quel calore umano che accoglie, in apertura, i promettenti Himalayas, giovanissima band di Glasgow.
“Chissà che cosa combinerà Reignwolf (appellativo che spesso diventa collettivo) in un contesto così” – ci si chiede. Tutte le possibili risposte, però, non si avvicineranno mai all’esito della serata. Ecco spuntare Jordan con la chitarra in mano, il cappellino nero e un giubbino di pelle marchiato a fuoco da un lupo sul petto. Con lui gli altissimi e fedelissimi Stacey James Kardash al basso e Joseph Braley alla batteria. Un attacco che si trasforma in un’esplosione travolgente. Al contrario di quanto affermato nel secondo verso di “I Want You”, brano di apertura, non si bussa a nessuna porta. Qui la porta si sfonda a colpi di fisicità, volume, energia. I riff acidi di “Alligator” evocano il fango delle paludi abitate da coccodrilli minacciosi, in “Black and Red” i due colori sono miscelati con un diluente di sensuale aggressività ed un richiamo al sound di Royal Blood e Queens of The Stone Age. “Monster” è la “fuori programma”, secondo le sue dichiarazioni post concerto: “L’abbiamo provata al soundcheck e inserita”. Programma che poi, di solito, non c’è, non essendo mai prevista una setlist. Largo spazio, infatti, all’improvvisazione più scatenata: il fenomeno di Saskatoo diventa un’entità sola con la sua chitarra, la suona strisciando sopra il microfono, la trasforma in una pistola, batte sopra il ritmo, sembra farci l’amore. Non la lascia andare nemmeno quando si siede alla batteria in un eccitante one man show. In uno scenario del genere, fondamentale diventa il dialogo con il pubblico: c’è chi rivendica la sua partecipazione già nel 2004 in Belgio, chi, come il tredicenne Andrea a cui viene dedicata “Electric Love”, è al suo primo concerto rock.
“Sono davvero felice di essere qui. Voi mi state dicendo che aspettavate da tanto…anche io! È fantastico! C’è qualcuno che ha già visto i Reignwolf? E c’è qualcuno fidanzato? Io voglio fidanzarmi stasera!”. Sulla trascinante e psichedelica “Over and Over”, la richiesta è di ricreare una fusione con i fan: il ritornello è un turbinio di voci che si uniscono alla sua, così graffiante, caustica, talvolta trascinata, talvolta decisissima. Il possibile limite spaziale è convertito in punto di forza di cui vengono sfruttati tutti elementi. Cook attorciglia il microfono ai tralicci e canta girandoci intorno con le mani dietro la schiena, le casse sono rampe di lancio, il parterre nel set finale diviene il prolungamento del palco dove è trasportata la batteria per un monopolio della scena della parte ritmica, ora fuori controllo come il loro capobranco. L’attesissima “Are You Satisfied?” è riservata alla furia finale. Il grido di delusione, il dolore della solitudine, la rabbia psicotica e tanto, tanto sudore che goccia dall’alto di quell’americana dove Jordan si arrampica sulle note conclusive.
Torniamo tutti con i piedi a terra, poco dopo. Abbiamo la possibilità di trattenerci fino all’ultimo chiedendo un autografo, una foto, scambiando qualche battuta con il cantante che si dimostra davvero disponibile e grato per la riuscita della serata. Serata che per me termina alla ricerca di un taxi, ormai a tarda notte, con il volume assordante persistente nelle orecchie. Complice, forse, lo strascico della bolla spazio temporale del live, ormai seduta in macchina, ho ripensato alla citazione di Jon Landau riguardante The Boss: “Ho visto il futuro del rock e il suo nome è Bruce Springsteen”. Ecco, io ho assistito a qualcosa di simile. Probabilmente non si parla nemmeno di futuro. Perché il reattore di emozioni generato è stato, ed è rimasto, visceralmente vicino, follemente vivo. E maledettamente presente.