Robert Plant and The Sensational Space Shifters, il report del concerto a Milano del 20 luglio 2016

robert-plant-and-the-sensational-space-shifters-report-concerto-milano-20-luglio-2016Robert Plant la leggenda del rock, il musicista e l’uomo, indomito, versatile, sperimentatore, sempre alla ricerca di nuove strade artistiche e umane da percorrere. C’è tutto sul palco dell’Assago Summer Arena e nel disco, “Lullaby and… the Ceaseless Roar”, realizzato nel 2014 assieme ai The Sensational Space Shifters, la band che lo sta accompagnando nella sua più recente avventura anche dal vivo.

È un viaggio sonoro quello proposto da Plant nell’afa della notte milanese di mercoledì 20 luglio 2016. Morbido come una piuma – non a caso il suo simbolo da “Led Zeppelin IV” e ancora oggi unico elemento di arredo a sfondo di una scena che, considerato il peso specifico di chi la riempie, di fronzoli non ha davvero bisogno -, duttile e denso come il mercurio, Plant nell’arco di un’ora e mezza ha portato il pubblico dello Street Music Art in un pellegrinaggio nelle profondità spazio temporali di una vicenda musicale che non conosce confini.

Introdotti dal set del pianista boogie-woogie Mike Sanchez, Robert Plant e i suoi The Sensational Space Shifters, rimestano le carte in tavola fondendo tradizioni e tradizione, viaggiando tra Stati Uniti, Africa occidentale, Gran Bretagna e avanti e indietro sul binario della storia del rock, dalle sorgenti al mare aperto, dalla tradizione folk, al country, agli standard blues e al rock’n’roll da cui trassero linfa vitale gli Zeppelin e oltre fino all’elettronica portata in campo dai sintetizzatori di John Baggott (già membro degli Strange Sensation di Robert Plant e dal vivo con Portishead e Massive Attack).

L’apertura è affidata ai brani originali tratti dal disco, “Poor Howard”, “Turn It Up” e “Rainbow”, inframezzati da “Black Dog” e “What Is and What Should Never Be” suonate in una versione soft, che ne esalta la pasta blues e country, introducendo anche un tocco d’ironia, tratto che pare essersi fatto via via sempre più strada nell’animo di un Robert Plant in formissima nonostante le imminenti 68 primavere. Le sue note ce le ha ancora tutte, anche se inevitabilmente gli anni gli hanno sottratto qualcosa in potenza e agilità, e le movenze, che lo resero, assieme a molto altro, uno dei frontman più incredibili della storia del rock, sono sempre le sue.

A spalleggiarlo una band di comprimari, musicisti di esperienza e di estrazione diversissima, in grado di sintetizzare la strepitosa miscela sonora che caratterizza il progetto, sublimata nell’esecuzione della tradizionale “Little Maggie”, quasi irriverente nell’arrangiamento ibrido di folk ed elettronica ordito per il disco da Plant e soci e in generale nell’accostamento lungo tutto l’arco del concerto di una strumentazione, che va dal banjo e dalla chitarra acustica di Liam “Skin” Tyson, all’elettrica blues, rock’n’roll e rockabilly di Justin Adams, ai synth di John Baggott, fino al goje del griot del Gambia, Juldeh Camara, e alla versatile sezione ritmica fornita da Billy Fuller al basso e Dave Smith alla batteria. E poi percussioni, percussioni e percussioni, le stesse che trascinano il pubblico ad accompagnare quasi tutti i pezzi col battito delle mani. Dal palco gradiscono e rilanciano.

La fusione a caldo di brani come “No Place To Go” dei Fleetwood Mac, “How Many More Times” e “Dazed And Confused” è un viaggio alle fonti dell’ispirazione di pezzi che hanno fatto la storia del rock. Lo stesso avviene con “I just want to make love to you” di Willie Dixon, “Whole lotta love” e “Hey! Bo Diddley” di Bo Diddley, unite, come “Bluebirds over the mountain” di Ersel Hickey e “Rock and roll”, in una sorta di medley in grado di raccontare una storia di scambio, evoluzione e trasformazione continui. Il resto lo fa il goje di Camara, spingendosi più volte nell’esplorazione dei parossismi chitarristici con cui Jimmy Page scrisse una pagina indimenticabile nella storia delle sei corde. Lui di corde ne ha qualcuna in meno, ma sono dettagli.

“All the king’s horses”, “Babe I’m gonna leave you” e il blues di Bukka White, “Fixin’ to die”, costituiscono la parentesi soft di un concerto chiuso, dopo il primo encore, con l’amorevole carezza di un grande classico degli Zeppelin, “Going to California”. Uno show di grande spessore, testimone della classe adamantina e della vitalità artistica di Robert Plant, leggenda del rock, musicista e uomo.

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