Storie di rock ben raccontate, grandi canzoni, poesia che corre libera per l’universo. Tutto questo è Rock Bazar, andato in scena, come in altri teatri d’Italia, al Duse di Bologna il 4 febbraio. Uno spettacolo ben costruito, con un giornalista di lungo corso, Massimo Cotto, che narra i suoi aneddoti, derivati dall’incontro diretto con tante stars, spulciati dai libri, tramandati di generazione in generazione e che vanno a comporre la grande storia della musica che amiamo.
“Il rock and roll è il mio Dio“, disse una volta Lou Reed. E’ il punto da cui parte Cotto, aggiungendo che “il rock è una religione politeista, in cui ognuno degli dei non ammette l’esistenza dell’altro“. E da qui comincia ad edificare il suo personale decalogo, dieci comandamenti a cui il rock obbedisce, oppure no, perché è una musica e una cultura che vive di contraddizioni. Da teatro puro, l’incontro casuale tra Jim Morrison e Robert Plant, su un aereo, entrambi all’apice della fama nel 1970. Dopo un po’ Morrison chiede all’altro, fingendo di non sapere: “Ma che tu fai nella vita?” E Plant: “Canto in una band , si chiamano Led Zeppelin“. E Morrison: “Mai sentiti”. Pausa, silenzio. E dopo un po’ è Plant a prendere l’iniziativa: “E tu cosa fai?“. Il leader dei Doors risponde: “Il poeta“. e Plant, perfido: “Anch’io, ma poi ho avuto successo“.
Cristina Donà, l’unica vera rocker che abbiamo in Italia, cuce grande musica intorno alle parole di Cotto, che racconta e racconta. Di Robert Johnson, la prima rockstar in assoluto e del suo presunto patto con il Diavolo. Uno che ha scritto 29 canzoni tutte di un getto e non sapeva nemmeno suonare, brani che hanno influenzato milioni di musicisti a venire, tra cui gente come Jimmy Page, Jimi Hendrix, Eric Clapton, giù giù fino a Jack White. Di Jeff Buckley, scomparso nelle torbide acque del Mississippi ed entrato nella leggenda. Di Syd Barrett, una delle migliori menti della sua generazione che si è bruciato il cervello con l’acido e del suo commosso incontro con i vecchi compari ai tempi di “Wish You Were Here”. Sono storie di droga, e di sesso, componenti indissolubili nel trinomio che ci affascina da anni. Di amanti e mogli scambiate, ma anche di amori unici e meravigliosi, come quello di Johnny Cash, un vero uomo, sempre fedele alla sua musa June Carter.
E poi c’è musica, grande musica. La Donà è capace di essere lieve e heavy, tra sussurri e grida inanella brani da urlo come un’iniziale “Heroes”, riarrangiata con un chitarrista, Asso, che sa fatto il suo, incisivo e semplice. Una rarefatta “Sympathy for the Devil”, ispirata a Jagger dalla lettura de “Il Maestro e Margherita di Bulgakov. “The End” dei Doors ancora più scarnificata nella sua bellezza da tragedia greca, “Rockin’in The Free World” di Neil Young che fa da chiosa al mistero del cadavere scomparso di Gram Parsons.
Il gioco delle perle di vetro affascina, non sempre i testi richiamano le canzoni, Cotto parla di Dylan che esegue “Forever Young” e “Hard Rain A Gonna Fall” davanti a Papa Woityla e parte la commovente “I Shall be Released” che Cristina rende con rara maestria e dove canta pure il giornalista.
Celebrazioni e riti, assassinii e furti (“non desiderare la roba d’altri“, anche in senso stupefacente), eccessi e storie d’amore bellissime come quella di Josè e Josephina, genitori di Carlos Santana, accompagnata da “Gracias a la vida” di Violeta Parra che con il rock c’entra poco, ma è una canzone stupenda lo stesso. Applausi scroscianti per il trio e si chiude con Donà che canta se stessa e Patti Smith insieme, “Dancing Barefoot” e un suo brano, raccoglie un’ovazione e si va via, nella notte bolognese, con un bel carico di emozioni e la voglia, arrivati a casa, di mettere su quel disco, cercare quel libro, rivedere quel film. Ora e sempre, nei secoli dei secoli.