Il report e le foto del Rockavaria 2015: Muse, Kiss, Metallica e il pass farlocco

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Quest’anno mi sono detto: “Oh, c’è questo nuovo festival a Monaco che ha una line-up da giubilo pubico, ci vado sicuro, ché i tedeschi sanno organizzarli ‘sti eventi e viene fuori una figata fotonica”. Alla fine ci sono andato davvero, perché c’è poco da pensare se in tre giorni riesci a beccarti Muse, Kiss, Metallica, Faith No More, Incubus, Judas Priest, Airbourne, Limp Bizkit, The Hives, The Darkness e altro mezzo mondo.

Arrivato all’Olympiapark inizio a godere alla vista della location, che è davvero un pregio assoluto, poi però arriva il momento delle imprecazioni quando in sala stampa vengo accolto con un “ecco il biglietto per i tre giorni, nel Main Stage avete posto numerato in tribuna”. Posto nume-COSA? In tribu-DOVE? Dopo aver cercato senza risultato le telecamere e le scritte “Shkerzi a parten” capisco che sono seri. Un festival rock-metal-sticazzi e io dovrei stare seduto su dei sedili verdi vedendo il Main Stage a grandezza Lego?

Per fortuna insieme al biglietto mi danno anche un pass media che in teoria dovrebbe servire solo per accedere all’area stampa e scroccare il wi-fi, ma con la mia leggendaria faccia da culo lo esibisco come un “forse non hai capito, te dico levate” e scendo senza problemi.

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Il primo giorno tutto bello, tutto figo e l’offerta è quella più varia e easy del festival. Oltretutto ci sono i Muse che tirano parecchio. E allora come si spiega un Olympiastadion pieno solo a metà? Forse che fare tre festival gemelli in un’area geografica così ristretta non è un’idea geniale? Soprattutto se poi i Muse sono onnipresenti anche in mille altri Paesi europei in manifestazioni consolidate che attirano pubblico anche senza aver annunciato ancora la line-up? #SEH
Fatto sta che ci sono parecchie band che meritano, tra cui i The Hives. Ecco, penso che i The Hives da piccoli siano stati allattati con la Redbull, perché un’energia così su un palco non si vede altrove. E poi ottimi Incubus (soprattutto per la moltitudine di tette al vento che solo quel manzo di Brandon Boyd può scatenare) e soliti Muse che annichiliscono per quanto suonano da Dio dal vivo.

Il secondo giorno oso di più. In pratica mi accorgo che per qualche motivo tutti gli addetti ai lavori sono convinti che il pass media sia il documento d’identità di James Hetfield, perché mi fanno entrare dappertutto saltando le code e sorridendomi. Non ho provato ad usarlo solo per saltare la coda ai cessi, ma mi viene il dubbio che andasse bene anche lì. Quindi spostarsi da un palco all’altro e rientrare nel pit – anche quando chiuso per capienza massima – è un gioco da ragazzi.

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Il palco Theatron per esempio è un luogo misterioso. Un anfiteatro che ospita un migliaio di persone e a cui giustamente vogliono accederne sempre almeno il quintuplo. Che poi, che cazzo stai in coda due ore per un concerto di 45 minuti, che tanto lo perdi prima di entrare? Io invece ho il mio pass ed entro dalla porta sul retro. In questo terzo palco comunque fanno suonare band hardcore dai cui show mediamente escono più morti e feriti che da un film con Liam Neeson. Con gli Ignite e i Sick Of It All si poga comunque lo stesso, a costo di spalmarsi come marmellata sulle gradinate. Ignite oltretutto superlativi, la voce di quel toro che è Zoli Téglás è più massiccia degli Hot Dog XXL che servono agli stand.
Sugli altri due palchi si susseguono band di grosso calibro ed è un peccato dover scegliere tra The Darkness e Judas Priest nei due slot pre-headliner. Oppure invece di scegliere si può fare come me: vedere metà concerto di entrambi e spostandosi da una venue all’altra beccandosi insulti a manovella da tutti i tedeschi scavalcati come fossero la staccionata dello spot dell’Olio Cuore.

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Alla sera poi coppia di headliner da infarto: Kiss e Airbourne. Qui invece grazie a ritardi e ai soliti agili spostamenti riesco a vederli entrambi quasi per intero, perdendo giusto le prime due canzoni degli australiani. I Kiss sono ancora in grande spolvero tecnicamente ed esteticamente (e grazie al cazzo, con armature e trucco) ma vocalmente sia Paul Stanley che Gene Simmons sono finiti a schifìo. Per fortuna fiamme, fuochi d’artificio, coriandoli e tutto il resto fanno brillare gli occhi anche ai brutallari più incattiviti.
Gli Airbourne invece all’Olympiahalle spaccano tutto come sempre e Joel O’Keeffe apre le lattine di birra a testate, offrendole poi al pubblico. E siccome ne arraffo una godo come un mandrillo.

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Il terzo giorno l’egemonia è del thrash metal, con un Main Stage violentato da Exodus, Hatebreed, Testament e Kreator, prima della coppia d’attacco Faith No More-Metallica che è meglio di Gullit-Van Basten. Sugli altri palchi si distinguono Gallows, che portano anarchia totale al Theatron suonando sulla gradinata, ma soprattutto gli Anathema, che hanno la sfiga fotonica di cominciare poco prima dei Faith No More. Perciò a malincuore li devo salutare prematuramente, non prima di essermene scolate due alla loro salute e alla salute di quei fenomeni che hanno lasciato due pile di bicchieri vuoti a terra (ogni bicchiere restituito sono 2 euro).

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Arrivo al Main Stage e l’idea di rivedere di nuovo i Faith No More è pura libidine. In realtà loro sono un po’ fuori  contesto  rispetto al resto del cartellone e poco adatti forse a quel pubblico, molto più propenso ai circle pit a comando piuttosto che ai virtuosismi di Mike Patton (un po’ in sovrappeso, ma comunque Dio) o ai brani che furono pura avanguardia e ispirazione per diverse branche del metal. Ad ogni modo fanno il solito concerto da sogno, roba che non siamo degni.
Poi oh, arrivano i Metallica e a parte il fatto che Hetfield potrebbe anche salire sul palco e ruttare e dovremmo applaudirlo, i quattro ragazzoni sono in forma, sono davvero in forma. La menano un po’ troppo con la famiglia, che manca solo il “baciamo le mani”, però fanno un concerto clamoroso e suonano pure “The Unforgiven II”. Quindi lacrime e lividi come se non ci fosse un domani e si chiude così la prima edizione del Rockavaria Festival a Monaco di Baviera.

Organizzato con culo, in un sorprendente italian style, ma con location e line-up da top di gamma. Quindi bella, mi sa che torno pure l’anno prossimo.

Grazie a Paolo Sisa, Piero Lisergi e Filippo Asta

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