Slayer e Carcass, il report del concerto a Milano del 4 luglio 2016

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Slayer, Carcass, Behemoth. Un bill del genere non può che far venire l’acquolina in bocca agli amanti del lato oscuro del metal. E il 4 luglio 2016, al Market Sound di Milano, le sfumature di nero sono state per lo meno tre: dal satanico intellettual-esoterico, alla violenza insensata e splatter, a un misto blasfemo di entrambi.

Si inizia quando il sole è ancora alto in cielo, ed è un peccato perché i polacchi Behemoth, alla stregua di moderni vampiri, perdono una bella fetta del loro impatto scenografico fatto di corpse paint e sangue finto sotto la luce del giorno. Ma il suono, pur non essendo pulitissimo, c’è e inizia a predisporre gli animi per la lunga serata che ci aspetta. A cavallo tra black e death metal, i nostri propongono un buon numero di brani tratti da “The Satanist”, lavoro del 2014 che ha segnato un ritorno alle origini della band polacca, senza dimenticare pezzi meno recenti, come l’inquietante “At the Left Hand ov God”. Nergal è un frontman che sa come non prendersi sul serio e soprattutto come e quando uscire dal personaggio. Da quando ho scoperto che ha fatto il giudice a The Voice Poland, non posso fare a meno di vedermelo preso bene mentre un concorrente esegue i Kings of Leon, nonostante abbia fatto storcere il naso a molti, penso. Ma a me l’ha reso ancora più simpatico e umano nel suo essere coerentemente incoerente.

Il calare del sole è inversamente proporzionale alla violenza che nasce dal palco, e i tempi sono maturi per il set dei Carcass. La formazione di Liverpool ci sta dentro, alla grande: l’impatto è dei migliori, Jeff Walker e soci sono sempre brutti, sporchi e cattivi, ma nonostante tutto riescono pure a far ghignare con l’italiano stentato del vocalist. Chi ci sta pure dentro di brutto è il giovane batterista Daniel Wilding. Ottima performance alle pelli (“Corporal Jigsore Quandary” ha spaccato), degna dei suoi compagni di stage. Bill Steer è l’incarnazione del detto “l’abito non fa il monaco”: la camicina aderente e i pantaloni a zampa, sebbene rappresentino la sua natura settantiana neanche troppo latente, non devono trarre in inganno. La sua chitarra fa sempre massacri, così come quella di un altro recente acquisto alla sei corde, Ben Ash. Ovviamente la scaletta include molti brani estrapolati da “Surgical Steel”, ultimo album risalente al 2013, ma non si può prescindere da quelle pietre miliari splatter death metal venate di grind che rispondono al nome di “Heartwork” e “Necroticism – Descanting the Insalubrious”.

Messi alla prova dalla ferocia dei Carcass, dall’assalto delle zanzare sempre più fameliche e dall’attesa, gli Slayer ci fanno un grandissimo regalo: attaccano mezzora prima rispetto al previsto, un po’ in sordina almeno fino alla chicca di altri tempi “Fight Till Death” e ai volumi più ragionevoli di “War Ensemble”. Araya e i suoi sono granitici come sempre, a parte Gary Holt che in confronto agli altri, si sbatte come un dannato. Nonostante la performance dei nostri sia di buon livello, resta sempre il fatto che gli Slayer all’aperto ci perdono molto in cattiveria e in impatto. Ma è un problema che hanno più o meno tutte le band del genere, che hanno bisogno di essere ingabbiate in club o simili per far sì che le vibrazioni malefiche non si disperdano.

Il set prosegue come da copione con diverse apparizioni dal più recente lavoro in studio della formazione, ovvero “Repentless” e i grandi, immancabili classici da best of. Il quesito più importante della serata però rimane questo: nasi rotti ne abbiamo? Non lo so, a questo giro sono rimasta abbastanza defilata, mi è bastato il sangue finto dei Behemoth.

Slayer, la scaletta del concerto:
Repentless
Disciple
God Send Death
Mandatory Suicide
Fight Till Death
War Ensemble
When the Stillness Comes
You Against You
Postmortem
Hate Worldwide
Dead Skin Mask
The Antichrist
Pride in Prejudice
Take Control
Seasons in the Abyss
South of Heaven
Raining Blood
Black Magic
Angel of Death

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