Avrebbe potuto (e sarebbe dovuto) essere un evento memorabile per tutti gli appassionati del rock e del metal in ogni loro espressione, la tappa del Sonisphere italiana tenutasi in quel di Imola. Tuttavia, se a livello strettamente musicale gran parte delle premesse sono state mantenute, non altrettanto si può dire sull’organizzazione complessiva della due giorni. Tralasciando le polemiche sorte in seguito alla cancellazione del Saturn Stage e la conseguente cancellazione di ben sei band (difficile capire chi abbia torto e su chi possano realmente ricadere le colpe), rimane il fatto che organizzare un concerto di questa portata, a fine giugno, in un luogo che altro non è che un lungo e stretto parcheggio per camion, totalmente asfaltato (e di quell’asfalto che si surriscalda per bene col sole a picco), con poche zone d’ombra (praticamente solo qualche stand e i padiglioni laterali del parcheggio stesso), poche fontanelle e nebulizzatori e ancor meno bagni chimici, beh non è certamente il miglior biglietto da visita per il pubblico pagante.
Vien poi da chiedersi perché in paesi come Inghilterra, Germania, Svizzera e simili, ben più freschi del nostro anche in estate, simili eventi vengano quasi sempre dirottati su prati e zone erbose simili, mentre in Italia ci sia la tendenza ad organizzarli immancabilmente nei posti più caldi possibile. A voler fare del complottismo, verrebbe da pensare che le colpe non siano solo di chi organizza i festival in prima persona; anzi, che poteri ben più forti tentino in tutti i modi di scoraggiare la gente a seguire un certo tipo di musica.
Lasciamo perdere però la fantapolitica e concentriamoci sui gruppi. Purtroppo ci perdiamo le primissime band della giornata di sabato, e arriviamo in tempo solo per l’inizio dello show dei Bring Me The Horizon. Loro sono uno degli act di punta del movimento metalcore, e il loro ultimo disco ha mietuto consensi un po’ ovunque, ma è impossibile non segnalare una brutta prestazione da parte degli inglesi: cantante svociato e poca coesione fra i membri del complesso hanno peggiorato una già pessima qualità dei suoni, impastati per tutta la durata del loro show. Ci si aspettava davvero qualcosa di più in sede live; probabilmente era la giornata storta, ma la delusione è ineliminabile.
Va meglio con gli Apocalyptica. Chi scrive non ha mai fatto mistero di apprezzare ben poco il loro inutile pastiche di musica ‘classica’ e metal, e trova piuttosto paracula la trovata di questi violoncellisti piuttosto modesti di vendersi come ‘rockstar’. Paracula però geniale, questo va detto. E loro, il loro mestiere ormai lo sanno fare a menadito; un fracco di cover (le solite, Metallica, Sepultura, etc.), qualche brano originale meno kitsch del solito (!) e un accenno all’Inno di Mameli che provoca una botta di patriottismo negli astanti, e si è tutti contenti. Continuo a non gradire, il pubblico invece sì, e i finlandesi sono sempre più professionali, quindi hanno ragione loro.
Con i Mastodon s’inizia a far davvero sul serio. I suoni continuano a non quadrare, eppure la band di Atlanta dimostra tutto il suo valore. Certo, i pezzi di “Crack The Skye” non sono il massimo della fruibilità, e con suoni così mal equalizzati perdono quasi tutto il loro fascino, ma non si può negare la bravura dei Nostri, sempre più a loro agio in lidi spiccatamente progressivi. E la botta finale di “Blood And Thunder“, tratta per il sottoscritto dal loro capolavoro “Leviathan“, è di quelle che si ricordano. Vederli in un club e con una resa sonora più degna dovrebbe esser tutt’altra cosa.
Di Rob Zombie non si può che parlar bene. E non solo per la sua recente e strepitosa carriera come regista, ma anche per la musica che continua a proporre anche in veste ‘solista’. Carico e in palla come non mai, lui e la band che lo accompagnava (presenti nella line-up anche John 5 e Ginger Fish courtesy of Marilyn Manson). La scaletta basata un po’ sui vecchi classici dei White Zombie un po’ sui pezzi più recenti, con una “Devil Man” pazzesca e una “Scum Of The Earth” zozza come si conviene, e una presenza scenica notevolissima fanno del suo set uno dei momenti più adrenalinici del primo giorno. Stra promosso.
C’è poco da ricordare, invece, dell’esibizione dei Papa Roach. Pur non avendo mai ottenuto il successo di colleghi più illustri, loro ormai sono un’istituzione del nu metal, e la loro professionalità nell’affrontare un concerto non è in discussione. Anche a Imola hanno svolto il loro compito con scrupolo estremo, eppure è mancato un po’ di fuoco nelle loro esecuzioni di classici quali “Last Resort” e “Scars“. Il pubblico, ora piuttosto nutrito, ha mostrato di gradire, ma un senso d’anonimato è serpeggiato qua e là in più di un’occasione.
C’è da dire che anche delle leggende viventi come i Motorhead sono parsi un po’ scarichi. Vero che Lemmy viaggia per i settanta, tuttavia è parso un po’ sottotono anche vocalmente, così come Mikkey Dee e Phil Campbell non parevano al massimo dell’esaltazione. I classici comunque ci sono stati (quasi) tutti, con le immancabili “Ace Of Spades” e “Overkill” a perforare i timpani nel finale, e l’attitudine di Lemmy, che suona rock’n’roll prima che inventassero il rock’n’roll stesso, è sempre incredibile. Su ventimila concerti ce ne possono stare pure qualche decina un po’ sottotono. Non li dimenticheremo mai.
Chi invece è esaltato al massimo sono gli Slipknot. Nonostante, o forse proprio per quello, la tragica scomparsa del bassista Paul Gray, gli otto superstiti hanno montato un casino indescrivibile, fornendo una delle loro migliori prove nonché l’ideale atmosfera per un loro concerto, con tanto di fiamme sul palco. Da segnalare lo spaventoso tuffo di Sid Wilson, il dj, dall’altro del tetto di una costruzione laterale, e il bestemmione lanciato da Corey Taylor: esagerati in tutti i sensi. Scaletta con tutti i classici presenti, come si conviene a un “Memorial Tour”, e delirio totale su “Spit It Out“. Uno show che ha lasciato davvero il segno.
Setlist: (sic) – Eyeless – Wait and Bleed – The Blister Exists – Before I Forget – Disasterpiece – Psychosocial – The Heretic Anthem – Duality – Spit It Out – People = Shit – Surfacing
Un segno così profondo non l’hanno lasciato, purtroppo, gli headliner della serata, gli Iron Maiden. Spiace moltissimo scrivere questo su di uno dei più grandi gruppi rock (sì, non solo metal) della storia, ma troppe sono le falle per un nome enorme come il loro. Certo, nulla da dire sulla prestazione vocale di Bruce Dickinson, come al solito imperiale, o su quella strumentale degli altri cinque, come al solito monumentale. Però, una scaletta ormai scontata e mal assemblata (loro che potrebbero cambiarla ad ogni concerto, dato il repertorio, o proporre un disco diverso in versione integrale ogni anno) e trovate sceniche anch’esse non all’altezza lasciano inevitabilmente l’amaro in bocca; aggiungiamoci un palco misero e angusto, maxischermi che tanto maxi non sono, suoni che da dietro erano molto, molto bassi, e capiamo subito che in passato gli Iron hanno offerto spettacoli migliori, per usare un eufemismo. Insomma, Steve Harris dovrebbe rivedere alcune sue strategie, e Bruce dovrebbe evitare di urlare “Scream for me, Modena!!!” a Imola. Detto questo, sono sempre i migliori.
Setlist: Satellite 15… The Final Frontier – El Dorado – 2 Minutes to Midnight – The Talisman – Coming Home – Dance of Death – The Trooper – The Wicker Man – Blood Brothers – When the Wild Wind Blows – The Evil That Men Do – Fear of the Dark – Iron Maiden – The Number of the BeastHallowed Be Thy Name – Running Free.
Al contrario del primo giorno, la domenica abbiamo la possibilità di vedere tutti i gruppi. Si tratta di una giornata ibrida, all’insegna dell’eterogeneità, e se già il sabato l’affluenza non era stata granché in rapporto ai nomi presenti, per il day two è davvero esigua, a conferma che fra i prezzi eccessivi dei biglietti e un concetto di festival poco esportabile in Italia, non tutto è andato come si sarebbe voluto.
Comunque, sinteticamente: ottimo l’hard blues dei Rival Sons (in questo caso si direbbe “scaldano il pubblico”, ma nonostante fossero le dieci e qualcosa del mattino il caldo era già canicolare e il sole possente, quindi non è il caso) e carino l’alternative rock condito emo dei Kids In Glass Houses, mentre i The Damned Things sono davvero una piacevole sorpresa, non solo su disco ma anche dal vivo. Scott Ian ovviamente non c’era, intento a godersi il figlio appena nato, tuttavia Buckley, Caggiano e soci hanno dato vita a un ottimo spettacolo, tirato e con poche pause. Applausi per loro.
Un po’ troppo egocentrici, forse, i The Dwarves. Per chi non li conoscesse, sono dei tizi dediti ad un punk – hardcore dai tratti piuttosto melodici e soprattutto altamente disimpegnati, famosi per le copertine dei dischi al limite del pornografico. Se Hugh Hefner fosse un punkettone sarebbero il suo gruppo preferito. Loro sono anche bravi, e nella loro falsa demenza suonano pure bene e finiscono per coinvolgere persino parte del pubblico già abbrustolito. Ma con i loro “Ohhhhh, you love The Dwarves” ripetuti dopo ogni pezzo finiscono per essere un po’ tediosi. Dai, promossi comunque alla fine. Rimandati a settembre invece i Funeral For A Friend. Certo, anche loro sono stati ostaggio dei suoni scadenti, e la loro musica necessiterebbe di una pulizia sonora ben maggiore. Ciononostante sono parsi un po’ svogliati e soprattutto non in perfetta forma nelle parti vocali. Da rivedere, meglio se al chiuso.
Chi invece non ha risentito troppo dell’equalizzazione e ha finito per dominare la due giorni, almeno per chi scrive, sono i Kyuss. O meglio, i Kyuss lives!. Ok, non c’è Josh Homme, e il pur bravo Bruno Fevery non ha lo stesso carisma, e Josh è quello che ha scritto la maggior parte del materiale…ma sentire l’attacco del riff di “Gardenia” far tremare le viscere sotto il sole a picco delle due del pomeriggio senza una nube (più deserto di così!), ed essere assaliti dal tandem ritmico Oliveri – Bjork che le viscere te le strappa, è una di quelle emozioni che ti porterai dietro tutta la vita. Come quella di sentire la voce di John Garcia che non ha perso un’oncia del suo spessore, e ti sputa in faccia “Thumb“, “Green Machine” e altre perle accennando la sua tipica ‘danza’; ha qualche chilo in più, vero, ma è sempre in ottima forma. E gli stop and go finali di “Supa Scoopa And Mighty Scoop” , reiterati fino all’ipnosi, fanno sempre il loro effetto. La leggenda vive.
Deludono invece i Guano Apes. Non tanto per colpa loro (anche se il loro ultimo disco è davvero poca cosa, e tale pochezza si sente anche live), quanto per una setlist brevissima (solo i brani imprescindibili, “Open Your Eyes” e poco altro): la loro esibizione consterà di 23 minuti totali, davvero troppo esigua per una band come la loro, piazzata in quell’orario. In ogni caso suonano bene e la Nasic canta bene, i fan per adesso si devono accontentare di questo sunto ridotto ridotto sino al ritorno dei tedeschi quest’autunno.
Più agio temporale avranno i The Cult, vere e proprie leggende dell’hard rock degli Ottanta, che si renderanno protagonisti di un concerto sontuoso. Ian Astbury è in forma vocale splendida, e bardato di tutto punto sotto il sole cocente sembra farsi un baffo della canicola, anche se si rende perfettamente conto delle condizioni che i fan devono sopportare per vedere la sua band; “Give the people some water, they need water” è, più o meno, il suo appello accorato, a cui fa seguire il lancio di bottigliette d’acqua. Un grande anche in quello, e come si diceva grande è la prestazione dei The Cult tutti, con un’ottima scaletta ben giostrata fra vechi cavalli di battaglia (immancabile “She Sells Sanctuary“) e qualche chicca sparsa. Apoteosi con l’entrata in scena di John Garcia che duetta con Ian su “Love Removal Machine“. Fra i punti più alti del Festival.
Gli Alter Bridge sono indubbiamente belli da vedere. Show spettacolo, Myles in forma, ma il tutto è una versione ridotta di quanto già proposto quest’inverno (con tanto di assoli di sezione ritmica prima di “Metalingus” e di chitarre prima di “Rise Today“). I Sum 41 partono benissimo con una scaletta basata su molti pezzi famosi (“The Hell Song“, “Over My Head“, “Fat Lip“, “Still Waiting“, “In Too Deep“) e alcuni nuovi (“Reason To Believe“, “Skumfuck“, titletrack). Band in palla per più di metà set, poi nella parte finale calo vistoso di Deryck che costringe la band a segare un paio di canzoni (di sicuro “Pain For Pleasure“).
I My Chemical Romance invece mettono in piedi forse lo show della vita, telo bianco e zero fronzoli. Scaletta impostata più sull’impatto che sulle atmosfere (per questa ragione, non compare “Sing“). Delirio con gli estratti da “The Black Parade” (soprattutto “Mama” e “Welcome To The Black Parade“, proposte una dietro l’altra). Forte contestazione da parte del pubblico, che ha costretto la band a lasciare il set stizzita e senza salutare dopo 45 minuti (invece dell’ora prevista). Tra i migliori della due giorni (Reading/Leeds da headliner se lo meritano) con il peggior pubblico.
Setlist MCR: Look Alive Sunshine – (Intro) – Na Na Na (Na Na Na Na Na Na Na Na Na) – Give ‘Em Hell, Kid – Planetary (GO!) – The Only Hope For Me Is You – Bulletproof Heart – Mama – Welcome to The Black Parade – Famous Last Words – Outro.
Ai Linkin Park il compito di chiudere le danze. I Nostri mettono da subito in chiaro chi sono: palco paura, show paura, band quadrata ma sensibilmente delusa dal fatto che ad assistere allo show ci fosse poca gente. Maxischermo enorme sul retro, stage “classico” con scale a triangolo, show di luci di gran pregio. I brani di “A Thousand Suns” dal vivo guadagnano punti, ma è ovvio che il delirio più caldo è sui pezzi di “Meteora” e “Hybrid Theory” (“In The End” la cantava chiunque, addetti al catering inclusi). La coppia Shinoda – Bennington vero motore di un meccanismo rodato: il primo dal lato eletcro e visual, il secondo con il talento vocale assoluto. Parte finale che ha presentato i primi tre singoli estratti dal loro primo album. Anche per loro show ridotto, dai 100 annunciati a 75 minuti circa. Motivazioni ignote.
Setlist: The Requiem – Faint – Lying From You – Given Up – What I’ve Done – No More Sorrow – From the Inside – Jornada del Muerto – Waiting for the End – Numb – The Radiance – Iridescent – The Catalyst – In the End – Bleed It Out – Empty Spaces – When They Come for Me – Papercut – New Divide – Crawling – One Step Closer.
Il ‘caffè del Sonisphere
Voto 10: Ian Astbury dei The Cult. Sul palco è impressionante, vocalmente sembrano non passare gli anni e il carisma lo ha ancora tutto. Il voto è, però, per il suo vestiario: giubbotto di pelle, bruttissimi pantaloni lunghi e bandana. Con buona parte del pubblico che boccheggiava dal caldo. Idolo.
Voto 9: Lineup. Voto complessivo, indipendentemente dagli annunci di pochi giorni prima: la scommessa alla fine dal punto di vista della qualità è vinta. Buoni concerti al sabato e ottimi, con momenti clamorosi, alla domenica.
Voto 8: Il tributo degli Slipknot al defunto Paul Gray. Non facile da vedere per chi era distante, ma la tuta e la maschera del compianto bassista erano presenti, sorretti da un manichino piazzato a fianco della batteria di Joey Jordison. Lacrime.
Voto 7: Catering. Tanto, ben distribuito, relativamente economico (leggasi: in linea con gli altri eventi) e con vette di qualità che vanno oltre al paninaro con la piastra unta. Trovare frutta (!!!) e pasta (!!!) è un evento da accogliere con gioia e gaudio.
Voto 6: Iron Maiden. Una media tra 10 (ottimo lo show, come musicisti non tradiscono mai), 5 (la scaletta, fatta da troppi brani recenti infarciti da classici che inevitabilmente alzano la media) e 3 (il palco, brutto e con buona parte delle trovate del tour del 2010). Con un art designer vero e un fan che compili la scaletta (magari diversa ogni sera), sarebbero i migliori di sempre senza tanta fatica.
Voto 5: Merchandising. 30 euro politico su tutte le magliette. Ok che le cifre sono quelle, ma a sto punto me le compro dal sito ufficiale delle band. Così almeno sono sicuro che i soldi entrano nelle loro tasche.
Voto 4: Suoni. Un terno al lotto trovare una posizione nella quale si poteva sentire bene, ma sulla sinistra, dopo le torrette, staticamente era spesso il punto migliore. Mediamente orrendi al sabato e discreti alla domenica. A patto di stare piuttosto avanti, altrimenti il rischio pastone era sempre in agguato.
Voto 3: Location. Dispiace dirlo, ma il paddock 2 dell’Autodromo di Imola non è la scelta migliore per ospitare una due giorni. Sarebbe da maligni pensarlo (e avrebbe fatto sorgere il problema camping), ma l’enorme prato a fianco non sarebbe stata un’ipotesi da sottovalutare.
Voto 2: Il minutaggio dei Guano Apes. I tedeschi compaiono in classifica per quello che è forse l’unico punto veramente negativo della due giorni. Per fortuna torneranno a ottobre, ma 23 minuti sono esageratamente pochi, per quanto la loro setlist contenesse tutti i brani più famosi. Così scazzati che Sandra Nasic ha lasciato il reggiseno in camerino.
Voto 1: Il concept di festival “anglosassone” in Italia. Morto e sepolto. La stagione 2011 conferma che dalle nostre parti funziona solo l’evento giornaliero, in qualsiasi giorno della settimana (vedi Rock In Idrho) e il più settoriale possibile. Ogni cosa che va fuori dal seminato è un flop (vedi secondo giorno del Sonisphere).
Voto 0: Chi ha contestato i My Chemical Romance sul palco. L’indifferenza è il migliore insulto che possiamo fare a questi minus habens.
Stefano Masnaghetti, Nicola Lucchetta
Concordo con i due giornalisti, Crack the Skye è un album stupendo, peccato i Mastodon abbiano solo fatto la titletrack da quell’album e abbiano proposto i loro vecchi “successi”. Pallosissimi. Dispiace per i MCR, strano anche perchè pensavo che una buona fetta dei fans dei Linkin Park fosse li anche per loro. I LP han chiuso alle 23.30, non han fatto nessun encore, in linea con le altre scalette fatte non nei loro concerti in singolo ma con quelle degli altri festival.
Non credo i Sum abbiano tagliato la scaletta, Pain for pleasure nei festival non la fanno mai.