Stefano Bollani “La Regina Dada”, il report del concerto di Bologna del 16 marzo 2016

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Stefano Bollani dovrebbe continuare a fare il pianista. E’ un musicista eccelso, acclamato a livello internazionale, amatissimo dal pubblico, ha una cultura musicale sterminata ed è pure un ragazzo simpatico. Non si capisce proprio perché si impegni in operazioni come questa “La Regina Dada” dove, in teatro al Duse di Bologna mercoledì 16 marzo, ha raccolto tanti applausi in scena, ma anche tanti commenti negativi all’uscita. E tutti vertono in una sola direzione: continui a fare il musicista, è quello che gli viene meglio.

Se al posto di Stefano Bollani nel ruolo del maestro di musica ci fosse stato qualcun altro, il risultato sarebbe stato lo stesso. E’ brava Valentina Cenni nel ruolo della regina che abdica al suo ruolo, bisbetica non troppo domata, ma lo spettacolo manca di fluidità, procede a strappi, è talvolta noioso malgrado una scenografia intelligente, malgrado la bravura pianistica del nostro. Che però si rifugia nei classici, a punteggiare le mattane della regina, a calmarla con la musica terapeutica, a fare da sponda all’isterismo crescente di chi teme di essere scoperto ad ogni momento, di dover tornare ad un ruolo che rifiuta. Si rifugia in casa del maestro di musica, la Regina Dada, in cerca di un oasi di pace e tranquillità, in mezzo alla musica che sgorga dal pianoforte.

Ma lo spettacolo, malgrado i volonterosi tentativi dell’attrice, che è brava e si vede, si muove bene sul palco, danza perfino, non emoziona, non decolla mai veramente. E Bollani, con un repertorio sterminato alle spalle, con una conoscenza a 360 gradi della musica, delude proprio nel suo stesso campo. Quando si presenta al piano con una maschera da volpe che ricorda quella di Peter Gabriel in “Foxtrot”, tu pensi: ecco adesso parte “Firth of Forth” e ci fa felici tutti. Ma così non è. E alla fine del funerale della mosca, dopo che la Regina ha danzato con le corde luminose (bell’effetto scenico), mentre suonano lugubri i rintocchi della campana a morto, tu pensi: adesso accenna “Hell’s Bells” degli AC/DC. Niente. L’ironia che dovrebbe pervadere lo spettacolo è così sottile che spesso non si vede.

Una riflessione sul potere politico e sul potere della musica diventa una stiracchiata esibizione di se stessi. E lo spettacolo non arriva dove dovrebbe arrivare. Una forte dose di aspettative deluse.

La fine, dopo un’ora e quaranta, è quasi una liberazione. Il pubblico applaude e sembra convinto, ma nell’aria non senti convinzione. E’ il nome che prevale sul contenuto. Al termine, dopo i titoli di coda recitati sul palco dalla Cenni e i ringraziamenti di rito, Bollani omaggia Emerson con le note rag di “Honky Tonky Train Blues” (Meade Lux Lewis, peraltro) e riesce a rendere un po’ meno amaro il boccone. Ma a me viene voglia di andare a riascoltare “The Barbarian” (Bela Bartok reloaded).

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