Sziget Festival 2015, il report del mega evento di Budapest

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Sziget Festival 2015 è stato un successo clamoroso. Il mega evento che annualmente riunisce sull’Isola di Obuda migliaia di fan, ha presentato quest’anno gli show di superstar come Robbie Williams, Florence & The Machine, Kings Of Leon, Alt-J, Kasabian, Avicii e Martin Garrix.

Qualcuno di noi è stato, ovviamente, presente anche quest’anno. E per fare qualcosa di clamorosamente innovativo (#SEH) ci ha raccontato della kermesse postando cose a manetta sui social network (qui e qui). Vabbè insomma meglio di niente no? Ovviamente a bocce ferme (leggere la mattinata dopo), ne abbiamo scritto meglio.

Day One: come Woodstock ma con le docce

Il primo giorno di Sziget Festival è affidato a Robbie Williams. Sull’isola di Obuda, Budapest, i szitizens arrivano a fiumi già da domenica. L’isola è un mondo a sé stante. Dimenticate tutto, attraversate il ponte e abbandonatevi alla perenne atmosfera di festa che allo Sziget Festival regna ad ogni ora del giorno (e della notte).

I concerti del giorno sono tutti focalizzati sul Main Stage e l’apertura è affidata a tre band ungheresi: The Biebers, Ocho Macho e Irie Maffia. Mentre la gente si raduna, queste band offrono un ottimo rock con forte influenza reggae e voci molto black. Al tramonto scatta il balloon party, e migliaia di palloncini vengono suggestivamente liberati in aria. Con occhi lucidi di commozione, centinaia di sguardi si volgono al cielo per osservare una birra volare libera tra le nuvole, sostenuta da una manciata di palloncini. Addio. Non sarai dimenticata.

La birra volante. Solo allo #sziget! #LiveTune

Una foto pubblicata da Alessandro Mela (@alessandromela) in data:

Poi arriva Robbie Williams e eccede le aspettative, quantomeno quelle di chi come me non l’ha mai seguito, snobbando un po’ la musica pop. Mi aspettavo uno show carino, ma nulla di cosi coinvolgente, invece il buon Robbie (ormai siamo gia in confidenza) ha mostrato di saper intrattenere alla perfezione il pubblico e soprattutto, dote rara, di saper adattare lo show alla situazione. La scaletta infatti e molto varia, con ottimo mix di hit personali e diverse cover, medley e sing-along, perfetta per un pubblico da festival composto solo in parte da fan hardcore e per il resto di ascoltatori occasionali. Scopro così di conoscere più canzoni di quante non credessi; avendo passato gli ultimi anni sul pianeta Terra è difficile non conoscere “Angels”, “Candy” o “She’s the One”.

Se musicalmente la serata è impeccabile, la voce c’è e anche la Robbie Williams Band non è affatto male, a livello di intrattenimento Williams non è da meno. Tenta di spacciare per sua “Wonderwall”, poi compare sul palco con gonna e biancheria raffigurante una tigre. Tra un brano e l’altro fa un riassunto rapidissimo della sua carriera per chi era troppo giovane negli anni ’90, poi chiama sul palco una fan e la sfotte un po’ per la biografia non autorizzata che vuole farsi autografare, facendosi poi perdonare ospitandola sul palco per tutta un’esilarante esibizione. Uno dei medley migliori e quello tra “We Will Rock You” e “I Love Rock n Roll”, due pezzi che già singolarmente non possono fallire in concerto. Alla fine di “Come Undone” inserisce una strofa da quel capolavoro targato U2 che è “I Still Haven’t Found What I’m Looking For”; “Kids” è cantata sul riff della zeppeliniana “Whole Lotta Love”. Insomma, ce n’è per tutti i gusti possibili.

Dopo i bis, torna sul palco sulle note di “Bohemian Rhapsody“, mentre dietro scorre il video originale. I cori sono quelli originali, ma alla voce di Freddie è sostituita quella di Robbie. Ho un attimo di confusione, il classico dilemma morale che attanaglia l’animo: starà portando abbastanza rispetto? Ma i dubbi spariscono subito, quando Robbie dichiara che la canzone è un omaggio a Freddie, e allora ci si può rilassare e godersi il pezzo, che è sempre stupendo. Seguono “Angels” e la chiusura sulle note di “My Way”. L’unica pecca della serata è stata forse la durata: un’ora e mezza, che non e pochissimo ma un’altra mezz’ora non avrebbe guastato.

L’enorme folla si disperde verso nuove mete notturne. Dj set e fiumi di birra, oppure una doccia fredda e crollare di sonno nella tenda, tutte ugualmente valide alla fine di questa prima giornata di Sziget.

Alessandro Mela

Come Woodstock ma con le docce. Non per noi però, che siamo szingari. #sziget2015 Una foto pubblicata da Alessandro Mela (@alessandromela) in data:

Day Two: Corone di fiori e improbabili sonnellini

Al secondo giorno di festival iniziano a moltiplicarsi i palchi, e da mercoledì saranno tutti rumorosamente attivi. Si inizia a saltare di qua e di là, ma prima di dedicarsi alla musica bisogna completare l’esplorazione dell’isola. Che è decisamente piu grande di quanto non immaginassi. Dopo diverse deviazioni troviamo la Sziget beach, luogo rilassante quanto surreale. Il locale principale che si affaccia sulla spiaggetta ha disposto una miriade di teli e cuscini sotto le fronde degli alberi, e il dj pompa nelle casse (l’ho scritto veramente, sì) ma nessuno balla o si scatena: quasi tutti dormono accasciati nelle pose più strane, recuperando preziose ore di sonno perduto. Roba che se il dj invece di pompare mettesse su qualcosa di piu soft forse sarebbe anche apprezzato.

Una volta riemersi dal sonnellino, si ritorna al fulcro del festival, il Main stage, giusto in tempo per l’esibizione del musicista israeliano Asaf Avidan. Ora che ci penso, ecco il perché di tutte quelle bandiere israeliane. Avidan ha una voce molto particolare, difficile da definire. È una voce nasale, che suona quasi come un cartone animato, ed ha anche un tocco femminile; quando libera il lato piu blues, ricorda un po’ Janis Joplin. Il pubblico intorno al palco inizia ad aumentare, anche se lentamente, complice la temperatura ancora alta ed il sole che picchia, ma quando inizia “One Day/Reckoning Song”, il singolo di Avidan di maggior successo, la gente arriva a frotte. E benché il pezzo non sia affatto male, il meglio Asaf e la sua band lo danno quando si lasciano andare alle loro radici blues e rock’n’roll: qui la voce si fa graffiante, e il gioco di chitarre tra il cantante e la lead chitarrista diventa intenso e coinvolgente.

È il turno di Selah Sue, per la quale si migra verso l’A38 Stage. L’A38 è un gigantesco tendone da circo rosso, esternamente affascinante quanto soffocante all’interno. Anche l’audio non è dei migliori purtroppo, rendendo la voce di Selah un po’ sporca e confusa. Voce che in ogni caso si sa imporre, col suo genere composto di influenze reggae e soul. Dopo una mezz’ora di Selah e sauna, e tempo di tornare al Main stage in attesa di Florence + the Machine.

Una cascata di capelli ramati, lo sguardo spiritato e la voce. Florence + the Machine. #Sziget #LiveTune

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Florence + the Machine, un nome come un altro per una forza della natura. Dal primo secondo sul palco la cantante dalla chioma ramata non si ferma un solo istante: salta, balla, corre da una parte all’altra, fa piroette, abbraccia i fans, il tutto senza mai smettere di cantare. Qualcuno dal pubblico le da una corona di fiori, e lei la indossa subito, a perfetto completamento del suo stile. Il recente singolo “Ship To Wreck” supera a piena voti la “prova live”, confermandosi un ottimo pezzo. “Shake It Out” è sempre un piacere da sentire, un brano da brividi senza dubbio tra i migliori della discografia della band. Tra i momenti piu intensi del concerto, ci sono anche “What Kind Of Man” e “You’ve Got The Love”. Per il gran finale, Florence mi coglie di sorpresa, con un capolavoro di cui mi ero inspiegabilmente scordato: “Dog Days Are Over”, la conclusione perfetta, che non necessita di bis. Tutto quello che c’era da dire è stato detto.

Appena l’enorme folla di disperde, è ora di una merenda notturna (patate al forno, molto buone, nel caso foste curiosi) e poi si torna all’A38 per la parte finale del concerto dei Jungle. Questi esponenti del modern soul vengono parecchio apprezzati; il tendone è quasi pieno, e in moltissimi ballano e si lasciano coinvolgere dal loro sound, carino ma non entusiasmante.

Alessandro Mela

Day Three: Rimbalzando da un palco all’altro

Qui a Budapest si sta un po’ come nel deserto: bollente di giorno, fresco di notte. Alle quattro del pomeriggio, sotto il sole cocente i Gogol Bordello radunano una notevole folla sotto al Main Stage. Almeno finora, la più grande a un concerto pomeridiano. Con il loro rock gipsy e una bozza di vino in mano, i Gogol fanno ottima musica e vengono piuttosto apprezzati (nota linguistica a margine: a tavola si chiama “bottiglia di vino”, ma in questo contesto vi assicuro che era una bozza). Il loro fascino è sicuramente frutto, oltre ovviamente che delle loro canzoni, della loro immagine così “anti-divistica” e legata all’immaginario del musicista di strada. A fine show il palco viene ceduto a The Horrors, che a dispetto del nome forte non sono poi granché.

All’A38 però ci sono gli Halestorm, band di hard rock alternativo che fece un ottimo successo qualche anno fa col singolo “Here’s to Us”. Il successo del pezzo, anzi il successo di quel pezzo a dispetto di altri precedenti o successivi è facilmente indovinabile: si tratta di uno dei pezzi più melodici della loro produzione. Dal vivo infatti i toni sono molto più heavy, anche se non manca una ballad alla tastiera. La voce di Elizabeth “Lzzy” Hale è sempre intensa e crea un interessante effetto di straniamento, facendo suo un genere principalmente composto di voci maschili.

Niente “Here’s to Us”, o almeno non per me, perché è già ora di dirigersi verso il palco dei The Script. Questa banda di irlandesi ha un pubblico molto affezionato, si nota subito, e complice anche il “Flag party” del giorno la platea è invasa da bandiere di ogni Paese, creando un effetto visivo in stile festival di Glastonbury niente male; Danny O’Donoghue stesso ha un’orgogliosa bandiera Irish sul microfono. The Script dal vivo sono decisamente pop, più di quanto mi aspettassi. La voce ha l’enfasi principale, ma anche a Mark Sheenan, un pazzo coi capelli rossi che si occupa di chitarra e cori, viene affidato qualche momento. A parte qualche notabile eccezione i brani risultano molto orecchiabili anche se non eccelsi, ma nulla si può dire sull’esecuzione e sulla presenza scenica, entrambe impeccabili.

Il momento migliore del concerto è senza dubbio il finale: il cantante si lancia in un dialogo toccante in stile “discorso motivazionale da film pre-adolescenziale americano su una squadra di sfigati che deve giocare la partita a football della vita”, parlando però della musica, e di come essa ci sia sempre per tutti, senza pregiudizi e senza discriminazioni; poi giù di “Hall of Fame”, touchdown, la folla impazzisce.  entre il sole cala oltre Budapest, sul palco principale arrivano i protagonisti della serata: gli Alt-J. Mezz’ora più tardi però, pochi metri in là suoneranno gli Enter Shikari; decido quindi di usufruire del mio dono segreto dell’ubiquità, e vado a entrambi i concerti.

Gli Alt-J sono un’ottima band. Musicalmente sanno quello che fanno, e lo fanno bene, anche se per gusto personale li troverei ancora meglio se fossero un po’ più “mobili” sul palco e un filo più scatenati. Da questo punto di vista ricordano le esibizioni dei The National: non ci sono difetti da imputargli, ma sarebbe ancora di più una gioia per le orecchie se le canzoni ogni tanto “esplodessero” in un ritornello energico o un distorto assolo di chitarra. “Matilda”, uno tra i primi brani suonati, è anche una delle performance più emozionanti. Menzione d’onore agli ottimi giochi di luce del palco.

Dagli Enter Shikari invece, non so cosa aspettarmi. Mi sono stati caldamente consigliati, ma una ricerca Wikipedia non mi aiuta a capire cosa ascolterò: “Post-hardcore / electronicore”. E quindi? E quindi fanno del casino. Del gran, ottimo casino, e si divertono a farlo. Il batterista sembra un bimbo che per la prima volta ha avuto il permesso di spaccare tutto senza ripercussioni, si guarda intorno con fare gioviale e eccitato. Suonano sul palco e sulla folla e alla fine del concerto, con un’onda di adrenalina, le casse e le aste dei microfoni vengono rispettivamente lanciate o spaccate per terra. Sono passati cinquant’anni da quando lo facevano gli Who al termine di “My Generation”, ma non ce n’è per nessuno, vedere gente spaccare cose è sempre d’effetto.

Pausa birra e pretzel (anzi forse pretzels, dato che ne mangio tre) e poi la lunghissima serata continua con il rapper americano Tyler, The Creator, un personaggio piuttosto buffo spesso accusato di misoginia e omofobia (ma chi non lo è al giorno d’oggi?) che ci inonda una cascata di “fuck this shit”, “fuck all”, “fuck you bitches” secondo i migliori stereotipi del mondo hip hop.

Alessandro Mela

Non penso serva aggiungere altro! #sziget2015 Una foto pubblicata da Alessandro Mela (@alessandromela) in data:

Day Four: Indie, confetti, e black out

Quarto giorno di festival, la vita p.S. (Pre-Sziget) inizia ad essere solo un ricordo sfocato. Se tornassi indietro, a fare una doccia calda mi sentirei a disagio. Mangiare seduto a tavola, non ne vedrei il senso. Ma soprattutto, una giornata senza tre, quattro o più concerti, che scopo avrebbe? Il quarto giorno è dedicato al Main stage, ma ci rifaremo nei prossimi giorni, tirando fuori un po’ di orgoglio patriottico nei palchi minori.

Il menù del giorno propone una dieta all’inglese, con antipasto di The Maccabees e The Ting Tings, un primo di Foals e un secondo di Ellie Goulding. I Maccabees salgono sul palco alle quattro del pomeriggio, con diversi brani interessanti e una buona resa live. Altro discorso invece per The Ting Tings, band che propone qualche brano orecchiabile anche se ripetitivo fino all’ossessione, ma che in generale è sicuramente più adatta alla studio di incisione (magari con qualche ritocchino alla voce non eccelsa della cantante, che con un paio di effetti e il sound giusto può solo guadagnarci).

La festa del giorno è il Confetti party (“With millions of confetti”!), ma non fatevi trarre anche voi in inganno. La scena che mi ero immaginato comprendeva milioni di confetti di quelli da prima comunione, e gente che li usava per lapidarsi a vicenda; si trattava invece di semplici coriandoli, peraltro molto belli da vedere in aria, anche se il Balloon party rimarrà probabilmente ineguagliato.

 

#Sziget: Una festa quotidiana. #LiveTune

 

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Il concerto migliore della serata è senza dubbio quello dei Foals. Questi indie rockers di Oxford partono col botto con “Snake Oil”, per poi proseguire con la stessa energia; nemmeno il breve black out che interrompe lo show per un paio di minuti riesce a rovinare l’esibizione. La scaletta è un’ottima commistione dei loro primi tre dischi con una sbirciata al quarto, in uscita a fine mese.

Decisamente poco convincente invece lo show di Ellie Goulding. I pezzi, smaccatamente pop “da hit parade”, mancano di mordente, e la loro esecuzione è piuttosto meccaninca. Reduci da esibizioni come quella di Florence + the Machine, il confronto tra chi ci mette l’anima per davvero e chi si limita a cantare salta all’occhio. Anche quando vengono pronunciate frasi di rito quali “siete il pubblico migliore che ci sia” o “sono stata al Coachella e ad altri festival ma questo è il migliore”, il risultato è credibile come una banconota da tre euro. In ogni caso la maggior parte del pubblico sembra gradire lo spettacolo, e in molti seguono la performer cantando i testi delle canzoni. In chiusura arriva la super hit “Burn”, uno dei brani migliori dello show, unico in cui la cantante imbraccia una Les Paul e aggiunge un po’ di enfasi al brano.

Day Five: Al cuor non si comanda

Al quinto giorno, la nuova civiltà di szitizens è ormai quasi completamente formata. Attraversando gli accampamenti osserviamo diversi gruppi sociali adorare idoli prodotti con spazzatura e materiali di scarto vari; altri invece fabbricano rudimentali lance, impilando e fissando con del nastro adesivo lattine di birra. Il primo concerto del giorno è italiano, e per di più si tiene nella nostra piccola ambasciata: il Puglia Village, dove la pizza è buona.

Lo Stato Sociale sale sul palco alle tre e mezzo, coinvolgendo fin da subito la nutrita folla (composta principalmente da italiani) che si è radunata. Il primo impatto con le loro sonorità è strano, dopo giorni di musica americana, inglese e occasionalmente ungherese, ma dopo pochi brani risultano interessanti, e anche piuttosto divertenti. I loro testi ironici e satirici fanno sorridere il pubblico nostrano, e probabilmente per simpatia anche quello straniero. Da questo punto di vista risultano particolarmente buffi i tentativi da parte di vari membri della band di tradurre in inglese a beneficio del pubblico internazionale alcune frasi pronunciate o cantate, con risultati del calibro di «Questa canzone si intitola ”Seggiovia sull’oceano” – This song is called ”Something on the ocean”».

Sempre nell’ambito elettropop, ma con un approccio molto diverso, sul Main stage si esibiscono Marina and the Diamonds, band capitanata dalla cantautrice gallese Marina Lambrini Diamandis, che si auto-definisce ”un artista indie con obiettivi pop” e  ha una voce notevole, calda e ricca di sfaccettature. Le canzoni sono in prevalenza musicalmente allegre, e il concerto crea un’ottima atmosfera tra il pubblico presente. Un’ora dopo è il turno dei The Subways, che si esibiscono alla vicina A38. Questo trio inglese si rivela decisamente ottimo, con un sound e una presenza scenica semplici quanto efficaci. Siamo davanti un gruppo rock con quell’attitudine punk che punta tutto sulla musica, sull’energia delle canzoni, piuttosto che sui giochi di luci o sulle scenografie.

Al calar delle tenebre arrivano i Kasabian, e tra salti e pogo il pubblico si scatena; lo stesso chitarrista Sergio Pizzorno inneggia ”mosh-pit! mosh-pit!” (pogo, n.d.R.). L’impatto live di questa band è sempre elevato, e rispetto a concerti passati si nota un aumento di parti vocali affidate a Pizzorno, che in quanto mente della band probabilmente punta a risaltare di più. Brani come ”Days Are Forgotten” risuonano potenti nell’aria, ma a metà scaletta c’è spazio anche per la ballad ”Goodbye Kiss”, in questa versione live impreziosita da un intro di chitarra slide.

Alle 21 arriva al Main stage Avicii, che inizia la serata con un tripudio di luci, immagini e fiamme che eruttano dal palco, effetti veramente spettacolari; il suo classico sound  è familiare e facilmente riconoscibile. Dopo un paio di pezzi mi trovo però costretto ad migrare verso l’A38 stage, perché suonano The Gaslight Anthem. Hey brother, non te la prendere: al cuor non si comanda.

  <3   Una foto pubblicata da Alessandro Mela (@alessandromela) in data:

La band ha annunciato solo pochi giorni fa che alla fine di agosto, dopo le ultime date del tuor attualmente in corso, si prenderà una pausa, e tornerà soltanto quando avrà ottimo materiale per un nuovo LP. Giustissimo, ma non per questo meno difficile da accettare per i fan hardcore. Le premesse creano quindi ancora più hype verso questa serata. Le aspettative non vengono disattese: la band è in forma, e la scaletta amalgama brani tratti da tutta la discografia; in minoranza solo ”American Slang”. Alcuni pezzi vengono riarrangiati, come già da qualche tempo a questa parte, in una versione più tranquilla: è il caso di ”Great Expectations” e ”Wherefore Art Thou, Elvis?”. Tra i brani più recenti spiccano ”1,000 years” e ”Have Mercy”, mentre tra i grandi classici troviamo l’immortale ”The ’59 Sound”.

A seguire, si chiude la serata con una gemma del punk: i Dropkick Murphys, che col loro scatenato stile irish riempiono riempiono quasi interamente il tendone. Tra i vari brani, spicca una cover del classico targato AC/DC ”T.N.T”.

Questo delirio di luci è #Avicii! #Sziget #LiveTune

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Day Six: Rock’n’roll e limoni mancati

Anche oggi si parte con un po’ di orgoglio patriottico: al ”British Knights Europe Stage” (in breve: al Puglia Village) suonano i Fast Animals And Slow Kids, alternative rock band di Perugia, che ci intrattiene per un’ora con un concerto veramente ottimo. L’energia sul palco non manca mai, sia a livello musicale che interpretativo; il frontman Aimone Romizi dichiara con una certa emozione che si tratta del loro primo concerto fuori dai confini italiani. Nonostante il caldo, sotto il palco si è radunata una discreta folla, composta principalmente da italiani ma non solo. A seguire gli olandesi Splendid, che uniscono reggae, soul e rock, con una formazione che ai tradizionali strumenti aggiunge una sezione di fiati.

Al Main Stage invece il pomeriggio si apre con gli ungheresi Punnany Massif, che cedono poi il posto agli americani Hollywood Undead. Questa band unisce in maniera originale ed affascinante rap e metal, aggiungendo al tutto un look ”alla Black Bloc” con maschere inquietanti che coprono parte della faccia. Il loro sound è decisamente imponente, e dalla folla scatenata inizia ad alzarsi una nuvola di polvere.  Coscienti di creare uno squilibrio sensoriale al corpo, si passa da questa violenta esplosione di suoni al delicato folk intimista di William Fitzsimmons. Questo barbuto cantautore americano suona coadiuvato da altri due musicisti, un chitarrista e un polistrumentista che alterna tastiere e percussioni. Il suo sound è dolce e malinconico, e crea nell’ascoltatore particolari stati d’animo. Da questo punto di vista purtroppo l’esibizione risente della location inadatta: dall’esterno arrivano suoni di altri palchi e dj set, un rumore di fondo che non aiuta l’immersione dell’ascoltatore nella musica.

Con un secondo shock sensoriale, il folk viene abbandonato per lo show dei Major Lazer, che prendono possesso del Main stage. Questo gruppo di musica elettronica ha il pregio di saper rapportarsi piuttosto bene con l’enorme folla che si è radunata, incitando migliaia di persone a ballare e divertirsi. La nuvola di polvere è ormai una sorta di nebbia che circonda il palco e le zone circostanti, e sempre più persone girano con una bandana sulla bocca, conferendo alla serata un’atmosfera western niente male.

Il concerto del giorno è senza dubbio quello dei Kings Of Leon. Dopo aver ascoltato così tanti generi diversi, così tante sfumature, è un piacere ascoltare un concerto rock come si deve. Musicalmente impeccabili, i Kings Of Leon danno a tratti l’impressione di ascoltare un loro disco. Non interagiscono troppo con il pubblico, ma forniscono in ogni caso un’esibizione notevolissima; la voce di Caleb Followill in particolare si conferma veramente ottima anche dal vivo. Giunge ora il momento di fare un passo indietro, perché un concerto è un’esperienza completa, che trascende il semplice aspetto musicale. Vorrei ringraziare la collega Denise D’Angelilli, senza la quale questo report sarebbe stato un semplice report, e non una storia.

Sono le ore 21.30, i Kings Of Leon salgono sul palco e attaccano con ”Supersoaker”. Pochi metri più avanti rispetto alla nostra postazione, notiamo un ragazzo alto e magro che balla da solo, in modo non troppo aggraziato. Uno dei tanti personaggi Sziget, senza dubbio, se non fosse che avendolo davanti per parecchio tempo iniziamo a osservarlo con occhi nuovi, non come una semplice comparsa, ma come una persona. Scopriamo così che non è solo come credevamo: ha una compagnia di amici nei paraggi, e tra  essi una ragazzina scatenata quanto lui nel ballo, che di quando in quando gli lascia parcheggiare le mani sulle sue natiche, ma senza evidentemente concedergli nulla più. Ogni volta che è a portata di mano lui si avvicina, ma sembra che nonostante le varie tastate di posteriore non abbia poi tutta questa confidenza; nel frattempo l’atmosfera si fa sempre più calda, la band va alla grande, e noi iniziamo a tifare per il limone.

La serata prosegue senza troppe novità, e i Kings pescano ottimi brani un po’ da tutto il loro repertorio. Lui prosegue con le sue buffe danze, le continua a correre qua e là, finché non si spinge troppo lontano, sparendo alla vista in compagnia di un altro ragazzo. Chi è costui? E come si permette di intralciare le ruote del destino che noi abbiamo scelto per loro? Mentre il nostro sguardo teso vaga alla ricerca della fanciulla, il ragazzo riprende le sue legnose movenze. Ma è teso anche lui, molto teso. Fingendo indifferenza, continua a girare la testa sperando di scorgerla tra la folla, e soprattutto di non scorgerla con qualcun altro. Ora lui non è più solo un ragazzo buffo, è tutti noi. La sua ansia è la nostra, la sua paranoia pure. La band sta suonando ”Cold Desert”, un brano stupendo e struggente, perfetto per il momento. Manca solo uno stacco sul ragazzo che guarda dalla finestra mentre la pioggia scivola sul vetro, e avremmo un signor videoclip.

Il concerto si avvia alla fine, noi facciamo il tifo per loro, e i Kings Of Leon pure,  però ragazzi datevi da fare anche voi, suvvia! Il momento perfetto arriva, ma va anche colto, e quel momento è ”Use Somebody’‘. Uno dei pezzi migliori della band, uno dei brani migliori della serata. La canzone arriva al suo apice, e proprio in quell’istante lei ricompare. Si corrono incontro, è Il Momento, e lo vediamo quasi al rallentatore: si sfiorano, forse lei schiva,  e si finisce con un nulla di fatto. La nostra eccitazione diventa rabbia: è colpa di gente come voi se ogni Natale sotto al pandoro ”Maina” scriviamo ”gioia”.

La band esce, la band ritorna. Siamo agli encore. Datevi da fare disgraziati. Inizia ”Crawl”, e ad un tratto, i ragazzi corrono via, per avvicinarsi al palco. E noi rimaniamo così, sconvolti e frustrati. L’ultima canzone è il classico ”Sex On Fire”; commenti ulteriori non necessari. Ed eccoli tornare, ballando allegramente. È un  sorriso quello? Mancano pochi secondi e temiamo di non scoprire mai cosa sia veramente successo nella calca. Poi ad un tratto, un paio di baci fugaci. Così fugaci che io non sono sicuro di averli visti, ma Denise conferma, quindi ci fidiamo. Fine concerto, addio.

Non ci hanno dato la gioia di vederli limonare, ma ci hanno lasciato qualcosa: una pallida speranza per il futuro dell’umanità. Ci piace pensare che un giorno, magari diversi anni, andremo a un concerto dei Kings Of Leon e li vedremo ballare circondati da una torma di bambini dalle movenze legnose. 

Avvertenza, passare da Hollywood Undead a Fitzsimmons può causare shock sensoriale. #Sziget #LiveTune Una foto pubblicata da Alessandro Mela (@alessandromela) in data:

Day Seven: E venne la pioggia

E infine, all’alba del settimo giorno cadde la pioggia sull’isola di Óbuda. Il risveglio con la pioggia che ticchetta sulla tenda, e un po’ anche sulla faccia, è un ottimo prologo a questa strana, ultima giornata di Sziget Festival. Ricordate il polverone di ieri? Quello che sembrava nebbia? Ecco, andando dal Bradipo a fare colazione mi rendo conto di non essere l’unico a tossire, anzi, metà della gente è nelle mie stesse condizioni. Valuto le opzioni più probabili (virus zombie, attacco batteriologico, ecc.) poi mi butto sul caffè e sulla mia chocolate bakery. Ah, chi è il Bradipo? Il Bradipo è una ragazza che lavora in un furgoncino-forno che fornisce ottime paste calde e croissant a qualsiasi ora del giorno e della notte. Unica pecca, la fila causata dalla lentezza esasperante della suddetta ragazza, che quando arriva il tuo turno è così gentile e sorridente che non ce la potresti fare a dirle qualcosa.

Il primo concerto del giorno, è quello di José Gonzáles, musicista s… vedese (tipico nome nordico, probabilmente imparentato con Thor). La sua musica è un folk di qualità; cantando si accompagna arpeggiando su una chitarra classica. L’esibizione merita, l’unica pecca è indipendente dal musicista: come per William Fitzsimmons e Passenger, anche l’esibizione di Gonzáles risente della location scelta. L’A38 va bene per gli Enter Shikari o i Dropkick Murphys, che coprono qualsiasi rumore esterno, ma i delicati suoni folk vengono in parte coperti da quelli provenienti dal Main Stage, e soprattutto dall’irritante musica dell’attrazione “Fuerza bruta” che si trova a pochi metri dalle porte dell’A38. Con tanto spazio a disposizione, questa scelta lascia perplessi.

Prima dello show finale, sul Main stage intervengono gli americani Limp Bizkit. La loro fusione tra rap e metal è decisamente più orecchiabile di quella dei colleghi Hollywood Undead, complice forse la maggior esperienza o semplicemente diverse scelte stilistiche. E a proposito di scelte stilistiche, lascia a bocca aperta quella che conclude il concerto: la band esce, Fred Durst in coda, sulle note di “Stayin’ Alive”.

La chiusura del festival, almeno simbolicamente perché ci sono eventi per tutta la notte, è affidata al dj e producer olandese Martin Garrix. E qui, un altro scivolone dell’organizzazione del festival (a onor del vero, per il resto impeccabile): durante lo show di Garrix suona anche Passenger. Certo probabilmente si suppone che i due generi siano così diversi da non creare un conflitto di interessi, ma sarebbe stato meglio convogliare tutto il pubblico sullo show di chiusura, come si era fatto all’apertura per Robbie Williams, e far suonare Passenger in un altro momento. Per l’ennesima volta tento la mossa segreta dell’ubiquità, ma questa volta con risultati meno soddisfacenti del solito. In ogni caso, riesco ad assistere a buona parte di entrambi gli spettacoli.

Martin Garrix, come Avicii prima di lui, sale sul palco in grande stile, con luci, fiammate e glowing sticks agitate dal pubblico. È solo sul palco, per l’occasione trasformato in un enorme postazione da dj. Il pubblico è numerosissimo, e quasi tutti ballano e apprezzano la musica, forse ripensando alla settimana passata e a come trarre il meglio da queste ultime ore di Sziget. Spostandoci verso Passenger, ci imbattiamo in un momento alla “Incontri ravvicinati del terzo tipo”: una delle stradine, normalmente attraversata decine di volte al giorno, è sbarrata, con diversi giganti a guardia del passaggio; non possono passare nemmeno i campeggiatori che hanno la tenda lì. Subito la mia mente ripensa alle ipotesi mattutine di disastri e virus, e inizio a cercare su Twitter “#Budapest” per scoprire se sia successo qualcosa. Con un’arrogante mossa alla “Lei non sa chi sono io” riusciamo a passare mostrando i pass stampa, e raggiungiamo Passenger nel cuore dell’esibizione.

Oltre che un buon musicista, scopriamo che si tratta anche di un ottimo intrattenitore. Calca il palco da solo, one-man band, e tra un pezzo e l’altro racconta di come la gente confonda “Let Her Go” (la sua enorme hit) con “Let It Go” dal film “Frozen”. Nel frattempo suona alcuni dei suoi brani, che benché non abbiano scalato le classifiche sono veramente ottimi. Poi attacca con “Budapest” di George Ezra, che si trasforma presto in “Let Her Go”, con sommo gaudio del pubblico.

È ora di tornare allo show di Garrix però, per non perdersi il finale, e notiamo che le transenne sono aumentate. Dopo qualche minuto di sconcerto capiamo il perché (anche se continua a sfuggire come mai avere tanta segretezza al riguardo e maleducazione nei confronti di chi chiede di passare; ma è anche possibile che in realtà non avessero capito molto, dato che qui l’inglese non sembra troppo apprezzato). Dalle zone isolate partono i fuochi d’artificio, il gran finale della serata, creando splendidi effetti e girando all’insù ogni testa sull’isola. E sui fuochi, arriva il preannunciato temporale, che rende fangoso il terreno, già bagnato dalla mattina. Dopo qualche ora la pioggia cala, e centinaia di szitizens bagnati come pulcini entrano nuovamente all’A38 per sentire il gruppo elettronico francese C2C, musicalmente parlando il più interessante tra i pochi concerti di musica elettronica a cui ho assistito.

E infine, come per ogni cosa, arriva il momento dell’addio. Con non poche difficoltà si smonta la tenda, al buio, mentre nell’aria risuona una bestemmia in italiano di qualcuno che sicuramente sta smontando la tenda, al buio. Attraversando il ponte per l’ultima volta, per lasciarsi l’isola alle spalle, si passa sotto i vari cartelli “Good bye!”, “Poka!”, “Ciao!”, e sarà la stanchezza, sarà la tenda che mi sta spaccando la schiena, mi ritrovo a pensare che puoi togliere un uomo dall’isola, ma non puoi togliere l’isola dall’uomo.

  Finale col botto (e col fango). #Sziget #LiveTune   Una foto pubblicata da Alessandro Mela (@alessandromela) in data:

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