Il secondo giorno di Sziget si apre esplorando uno dei palchi minori, a livello di metratura ma non certo di qualità: il Blues Pub, dove un gruppo di connazionali conosciuti a pranzo mi trascina dal serbo Mr Swagger. Provate a immaginarvelo, uno che si chiama così. No, non ci avete azzeccato: a riempire il palco c’è questo colosso, seduto su una sedia e con una chitarra acustica sotto il braccio. Nient’altro, ma non serve altro: il blues che esce da quelle sei corde è del miglior tipo, e la voce calda e avvolgente che si unisce ai fraseggi non è certo da meno. Dal folk di “The House Of The Rising Sun” al soul di “A Change Is Gonna Come”, passando per “Help Me” di Sonny Boy Williamson, ogni brano è suonato con una passione che li rende classici senza tempo, a dispetto dell’età anagrafica del pezzo. Per chi è cresciuto a pane e musica americana veramente old school, una goduria.
Con una perfetta liaison mi sposto verso il Main Stage, per ascoltare l’inglese Jake Bugg. Bugg è giovane, ma nella sua musica si ritrovano quelle radici di cui sopra. Il suo cantautorato è fresco, ma affonda nella tradizione, ed il risultato è più che convincente.
A poca distanza, sotto il circense tendone del palco A38 si esibisce MØ. Conosco “Lean On”, la celeberrima collaborazione con i Major Lazer, e poco altro, ma la cantante convince fin dai primi brani. Canta e balla senza risparmiarsi, ed il tendone è pienissimo. “Lean On” arriva in chiusura, e a prescindere dai brani in sé menzione d’onore va fatta alle curate sonorità elettroniche.
La star della giornata però è Rihanna. Sulla carta almeno. L’isola è stracolma, ancora più del solito, è sold out. Guardandosi intorno, si nota qualche faccia nuova: uomini in giacca e camicia, donne in tacchi e Moncler. Non che sia un crimine, per carità, ma io ho il fango nelle pieghe dei jeans ed inevitabilmente mi saltano agli occhi. Non sono un fan di Rihanna, ma mi approccio al concerto senza pregiudizi, anche se con un’innegabile curiosità: dopo le polemiche sorte al concerto di San Siro, non vedo l’ora di sapere se quella milanese fosse una “serata no” o un campanello d’allarme. Alle 21.30 il Main Stage è pienissimo, e si aspetta la star.
E si aspetta.
Una piccola precisazione: trattandosi di un festival, gli orari sono molto scanditi, e raramente c’è tempo per più di cinque minuti di attesa oltre l’orario. Anche perché non si può poi sforare l’orario di fine, normalmente intorno alle 23.
Rihanna sale sul palco con trentacinque minuti di ritardo: facendo due conti, non canterà più di un’ora. Partiamo bene. L’ora successiva, è come una delle migliori pellicole della Asylum: il concerto di Rihanna è come “Sharknado”, noti milioni di cose che non vanno ma non puoi smettere di guardare. Ad accompagnarla c’è una band, ma sorgono legittimi dubbi sulla loro reale funzione, perché il sound è mediocre e ricorda quello di una base registrata. La voce di Rihanna, quando canta, non ha la potenza necessaria, e spesso tra una mossetta di ballo ed una simil-porno si limita a buttare qualche parola quà e là per poi volgere il microfono verso il pubblico.
A metà concerto le perplessità aumentano: che sia vicino al microfono oppure no, che canti oppure no, le canzoni vanno avanti lo stesso. Due domande, se si ha una parvenza di senso critico, ce le si fanno. Alla fine, l’esibizione dura poco più di un’ora, e mi lascia con un grande interrogativo: c’è ancora posto nel 2016 per queste stronzate da diva?
Ormai da tempo anche buona parte delle rockstar hanno abbandonato gli eccessi, almeno sul palco, ed il pubblico negli anni si è fatto più esigente. Pagare 60 Euro per un concerto dove il cantante è strafatto e non ne azzecca una non ha questo gran fascino. E perché allora pagare un biglietto per una star che lascia passare metà serata prima di salire sul palco, e non mette in quello che fa la benché minima serietà o passione?