Parliamoci chiaro, non so in quanti dopo aver visto l’ormai memorabile video di “Jungle” (oltre 26 milioni di visualizzazioni al momento) avranno pensato “questa ragazza andrà lontano”. Del resto nell’era di internet e della musica mainstream tutto pare nascere improvvisamente e rischia di scomparire dai radar alla stessa velocità; sono sicuro che chi sta leggendo potrà citare almeno un fenomeno YouTube – o per i più stagionati Myspace – durato l’arco di una sola stagione. Tash Sultana però, fin dagli esordi di quei video in bianco e nero girati nel salotto di casa, usando cassette della frutta come supporti per l’apparecchiatura, con le incursioni accidentali di cani e parenti sullo sfondo, pareva dotata di un’aura di spontaneità e normalità mista a vera bravura. Soprattutto, mentre armeggiava con pedali, effetti e manopole, dava l’idea di crederci e divertirsi veramente.
Tempo due anni e mezzo da quel video virale, e la ventitreenne australiana non si è più fermata: secondo tour mondiale in corso a supporto del primo vero full-lenght “Flow State” e Fabrique sold out. Devo dire che stavolta sono io ad essere sorpreso, perché un conto è immaginarsi Tash alla rassegna estiva del Magnolia come accaduto l’anno scorso, un altro riempire con svariati giorni di anticipo un locale di medie-grosse dimensioni e ben altro prezzo d’ingresso. La controprova arriva una volta giunto nei pressi del locale: siamo già in orario di supporto e la coda per entrare è lunga quanto l’isolato (è la gente che si è presa tardi o l’organizzazione che ha sottovalutato le tempistiche dei controlli?). Entro sulle ultime note del duo di supporto, i Pierce Brothers, che a quanto sembra hanno fatto il loro per scaldare il pubblico, composto per la maggiore ed egual percentuale da ragazzi e ragazze poco più che ventenni, ulteriore conferma di quanto Sultana abbia fatto più presa sui suoi coetanei che su qualunque altro demografico.
Mezz’ora per il consueto cambio di strumentazione sul palco e alle 2130 precise, dopo una breve intro sulle note di Bob Marley (giusto per rimarcare una delle sue influenze principali), Tash fa il suo ingresso in scena accolta da calorosi applausi: cappellino da baseball a coprire parzialmente la lunga chioma semi-rasta, una t-shirt decisamente abbondante, jeans sbrindellati e, come sempre, piedi nudi. Si parte con “Seed” e “Big Smoke”, e forse, a causa del lungo tempo per costruire il brano (letteralmente: per chi non lo avesse capito le melodie vengono create tramite una serie di riff e beat messi in loop, permettendo ad un singolo di gestire gli oneri di più musicisti), si stenta a decollare. La sensazione è che quando finalmente “si sia arrivati”, e ci si possa finalmente lasciare andare sulle note faticosamente attese, tutto duri troppo poco; anche “Seven”, pur essendo più semplice nella concezione in quanto senza chitarre, non dà la scossa che ormai ci si aspetta.
Il concerto ingrana solo dalla successiva “Cigarettes”, e qui Tash dà una prova convincente di quanto talento innato possegga: esso è un brano fondamentalmente povero di accompagnamento o loops ma risulta tra i più riusciti della serata, con una chitarra acustica che fa da perfetta cornice alla voce emotiva, calorosa e a tratti sensuale dell’australiana, ma con quel pizzico di ruvidezza nel timbro a dare la giusta profondità. Da questo momento in poi i brani si mescolano l’uno nell’altro senza soluzione di continuità; si riconoscono i riff e le liriche, ma è tutto come il titolo del suo platter “Flow State”: un flusso costante in cui le melodie a cascata sono mischiate con improvvisazioni che tolgono qualsiasi sicurezza su quando un pezzo sia veramente concluso; si viene trascinati in questa corrente di sonorità misto psichedelico-reggae-RnB e si è felici di esserlo. Grazie all’attrezzatura a sua disposizione Sultana riesce a ribaltare il mood presente in un nanosecondo, passando da un momento intimo di voce e chitarra a uno decisamente più upbeat e danzereccio, con ampio spazio alle sorprese: sugli scudi va il connubio flauto di pan e voce beatbox, a ricordarci del suo background da polistrumentista e busker.
Il pubblico partecipa calorosamente, e ad ogni variazione o aggiunta nella costruzione dei brani si lascia andare (a volte un po’ troppo ingenuamente, il suono di una chitarra distorta è davvero così esotico?) a grida di visibilio, ma è con “Jungle” che si raggiungono i massimi livelli di coinvolgimento, con l’intera platea a cantare il ritornello mentre la giovane performer ricambia con uno dei suoi classici sorrisi stile Stregatto. Nonostante Milano sia l’ultima data del tour Tash non si risparmia, suonando ed improvvisando per oltre due ore. Quando anche le ultime note dell’encore a dodici corde “Blackbird” – iniziato con un elegante flamenco, proseguito con uno shredding violento e terminato con un delicato arpeggio – si spengono Sultana saluta umilmente e se ne va a prendere il suo volo di ritorno per l’Australia. Un capitolo si chiude ma siamo appena agli inizi, poco ma sicuro.
Nicolò Barovier, foto a cura di Mairo Cinquetti