The Darkness – Milano, 24 gennaio 2016

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Il concerto dei The Darkness, tenutosi ieri sera all’Alcatraz di Milano, è stato l’effetto di due forze contrapposte. Una ha tentato di raffreddare gli entusiasmi del pubblico, cercando di mandarlo a casa nervoso e insoddisfatto. L’altra ha tentato invece di infiammarlo, di farlo ballare e urlare.

L’organizzazione dell’evento è stata deficitaria e ha tenuto gran parte del pubblico fuori al freddo per più di un’ora. Sono tempi di controlli e paure, e questo il popolo dei concerti lo ha accettato. Certo è che forse aprire le porte prima avrebbe aiutato. Molti sono riusciti ad entrare semi-congelati a concerto iniziato e la band di supporto rimarrà per quasi tutti un mistero eterno.
Cosa dire poi di una band che ha avuto il suo apice all’inizio, giocandosi tutto all’esordio per poi sfumare nel dimenticatoio del rock e rinascere dopo 10 anni in un’epoca totalmente diversa? Non possiamo dire cosa sarebbe stato dei Darkness se Justin Hawkins non fosse caduto preda di depressione e droghe, ma l’impressione è che rivederli adesso sia una fotografia sbiadita dei Darkness di un tempo, senza trovare vere e solide basi per una carriera futura. I pezzi nuovi sono potenti e piacevoli, ma il pubblico vuole sentire i vecchi cavalli di battaglia e Justin e soci mostrano stanchezza nel riproporli per la milionesima volta in un contesto che pare sempre più anacronistico come toni e verve. Qui però finiscono le note stonate, perché quello che inizia in ritardo è uno show a 360 gradi. Le doti intrattenitrici e di frontman di Justin sono eccezionali, riesce a parlare con il pubblico in una maniera scanzonata e grottesca, piena di humor inglese, che conquista e esalta immediatamente. Tra le varie battute, tipo giustificare il ritardo all’entrata perché “siete troppo belli, i vicini pensavano fosse una coda di fotomodelli e ha chiamato la polizia!“, scenette comiche che hanno visto il cantante rubare una macchina fotografica ai fotografi accreditati e usarla per immortalarsi i genitali, stage diving che lo ha trasportato per tutto il perimetro mentre cantava, nuotava o si cimentava in assoli di chitarra di tutto rispetto.
Forse la voce non ha più le ottave di una volta ma rimane qualcosa di stupefacente e più di una volta fa esaltare il pubblico per la sua potenza. Il suo marchio di fabbrica, quel falsetto (che in realtà falsetto non è) esilarante che condisce di glam l’hard rock settantiano della loro musica, è sempre presente e nei pezzi più famosi come “Love is Only a Feeling” e “I Believe in a Thing Called Love” non tradisce e il pubblico è definitivamente conquistato.

Si balla e si canta, è passato del tempo da quando i The Darkness erano considerati gli eredi dei Queen. Ora con il gruppo storico condividono solo il figlio del batterista, Rufus Taylor, e nient’altro. Ma vederli è sempre un piacere per le orecchie e per gli occhi.

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