Poco importa che sia un giorno infrasettimanale, martedì 8 aprile 2014 ad esser precisi: per il concerto dei The Notwist, l’Estragon di Bologna raccoglie indistintamente giovani universitari e chi di lune ne ha vista qualcuna di più.
La band bavarese si muove tra un groviglio di fili, tutti gli strumenti convogliati a centro palco, su un set semplice: unico vezzo, delle brevi fila di lampadine che tracciano il profilo di alcuni dettagli, l’asta del microfono, il limitare della consolle. La loro intermittenza impreziosisce alcuni dei brani senza ingombrare, senza intralciare la scia di empatia che ogni riverbero sonoro si lascia alle spalle.
Tutto il concerto è pesantemente improntato su “Close to the Glass”, ultimo disco uscito il 25 febbraio 2014 per la Sub Pop, mentre nulla è concesso al passato preneon goldeniano, ma poco importa, perché probabilmente male si incuneerebbe nel tono generale del live. Martin Gretschmann è davanti al palco, spicca alto dalla consolle: completamente avvolto e concentrato, talvolta ad occhi chiusi, pare quasi un direttore d’orchestra, che coordina i suoi strumenti con in mano due telecomandi della WII (che in realtà comandano una multitouch control surface…). Il trasporto è evidente, lo si scorge nello sguardo dei presenti, nel “ballo della spalla” che coinvolge tutti quelli sotto palco. Tutto frutto di una scelta sapiente di suoni e di un preciso gusto estetico che riesce ad addolcire ed esplorare il lato romantico delle più fredde atmosfere elettriche, che dal vivo risultano più avvolgenti che mai. Gli scenari evocati si susseguono ma senza fretta, si concedono alla degustazione, agghindati dal tintinnio dello xilofono, quasi unico ponte con la realtà in pezzi onirici come “Into Another Tone”. Il momento più privato dell’accoppiata chitarra/voce, incarnata nella figura di Markus Acher, giunge con la melodica “Casino”, dove le parole sino ad ora lasciate soffuse, sfumate e quasi soffocate, escono invece vivide impattando dal microfono.
Inaugura la seconda parte del live “Neon Golden”, title track di quel disco che ha portato la band alla ribalta globale, diventando un album seminale. Sembra pretestuoso dire che la canzone sia un’esplosione, ma di fatto l’impatto è quello potente di un ciclone, e stravolge l’atmosfera, immacolata da “Different Cars and Trains/Pilot”, trasognata e magnifica in “Consequence”, che lascia sospesi a mezz’aria e squassati, in parte lesi dagli applausi corposi che accompagnano la band fuori dal palco. Il secondo bis è una sorpresa: i cinque musicisti risalgono sul palco e propongono un assaggio di “The Devil, You + Me”, album del 2008 che ha avuto il principale difetto di essere il seguito di un capolavoro canonizzato come inarrivabile. La band non poteva congedarsi meglio che con le note melanconiche di “Gone Gone Gone”, che chiude la quadra di un concerto che nel suo ardire ha offerto un ampio spettro di quanta e quale sia la consapevolezza (e la maestria) di una band in evoluzione continua, non solo di album in album ma anche di pezzo in pezzo, che non a caso ha fatto del concetto di sperimentazione la propria bandiera.
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