Pensavo di andare al concerto dei The Wombats a Milano il 3 aprile 2015 con il mio bel carico di prospettive, raramente stravolte, e tornare a casa a scrivere la cronaca dello show rispettando più o meno le mie solite linee guida. Però un ottimo report dettagliato dei Wombats è già stato scritto per il magnifico concerto di Roma che ha preceduto il mio (e a questo punto leggetevelo, non fate i timidi) e io sono uscito dal Fabrique con un sacco di “non pensavo” e “non so se mi era mai capitato di” a cui dovrei dare spazio.
Andiamo con ordine: a me i Wombats piacevano molto, ma non li avevo ancora mai visti dal vivo. Basandomi solo sui lavori in studio della formazione di Liverpool mi sono costruito un’immagine incompiuta della band, in cui il giudizio su una discografia ricca di bei singoli ma costituita da due dischi non brillanti gettava qualche ombra sulla mia posizione. Ombre che mi portavano a chiedermi: “posso considerarmi un fan?”
Intanto non so se mi era mai capitato di vedere un componente della band distinguibile dalla platea esclusivamente grazie alla collocazione sul palco. E per la presenza di uno strumento, chiaro. Ma è capitato ieri sera col bassista Tord Øverland-Knudsen, praticamente un fan di se stesso e della sua stessa band sul palco: totalmente in delirio, folle e scalmanato. Me lo sono immaginato dietro al palco a sussurrare “one more song” prima di rientrare per l’encore, o a chiedere l’autografo a Mat e Dan a fine concerto, urlando “best day ever“.
Poi non pensavo di uscire dal concerto dei marsupiali con l’impellente voglia di avere per le mani il nuovo disco “Glitterbug”, ormai prossimo alla pubblicazione. Infatti l’idea iniziale era di acquistarlo al primo sconto. Adesso, invece, son costretto a darmi al pre-order.
Un trio in perfetta simbiosi che trasforma ogni brano in una versione più fresca ed esplosiva, suonando senza riserve, in una venue forse troppo capiente per il pubblico presente, come se fosse il Wembley Stadium. Un pubblico stratosferico, pronto a saltare dalla prima all’ultima canzone, dalla prima all’ultima fila. La scena magrittiana che si manifesta nel cantare a squarciagola “This is not a party” saltando in maniera scomposta, la catartica enfasi sull’esecuzione di “Let’s Dance to Joy Division”. C’è così tanto da dire.
Ma non voglio neanche tralasciare dettagli che per molti sono solo un contorno: le luci di questo tour sono una meraviglia. Non so in quanti al Fabrique si sono soffermati ad attribuire alla scenografia un peso nella riuscita dello show, ma io l’ho fatto e ne ho dedotto non è trascurabile. Una sequenza di tubi neon a LED che delineano lo skyline notturno di una città in cui la loro nuova direzione synth-pop (e che synth-pop) sguazza. “Greek Tragedy”, per esempio, senza quelle luci e quel cartonato non sarebbe stata la stessa. Lontano dal fumo negli occhi delle grandi produzioni e col dito medio rivolto ai pretenziosi impianti minimal, ciò che ho visto alla spalle dei tre musicisti ha contribuito a imprimere nei ricordi la sensazione di stare al loro concerto. Una bellissima sensazione.
Raramente decido deliberatamente di lasciare la mia solita impostazione per i live report e di abusare della prima persona singolare, ma altrettanto raramente esco dalla porta di un club con così tante cose nuove da dire. E adesso sì, posso considerarmi un fan.
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