“Mmh, si è tirata eh!?”
“Si, fa impressione, è diversissima!”
Ok, ok, la storia del botox.
“Ma allora è sempre rossa!”.
Il vestito…: “A Roma era in verde e fucsia”. Bello, va bene, le scarpe pure.
“Ma la figlia?” Sta bene, si chiama Natashya, ha tredici anni, sta a Londra e studia alla
Sylvia Young Theatre School (sì, quella di Amy Winehouse); forse farà la musicista come la mamma, forse il veterinario o forse scriverà dei libri con la benedizione dello zio Neil (Gaiman), che mentre lei nasceva le scriveva “Blueberry Girl” oppure, chissà, scapperà col malloppo in qualche paradiso tropicale.
“Ha cinquant’anni?!”. Sì, suonati.
Detto ciò, la cosa più incredibile di Tori Amos è e rimane la musica. È pensando alla sua produzione, quei quattordici studio album sfornati con cadenza certosina a partire dal 1992, le tre raccolte e il musical “The Light Princess”, tratto dall’omonima fiaba di George MacDonald e realizzato nel 2013 per il British National Theatre, che si accende la stima. È considerando l’onestà e la libertà creativa con cui ha affrontato anche i periodi più bassi della carriera (penso all’epoca di “To Venus and Back” e “Strange Little Girls” e al rapporto incatenante con la Atlantic), senza smettere di ricercare nuove soluzioni, di “espandere il proprio vocabolario”, direbbe lei, e la disciplina con cui ha coltivato il cuore della questione, la Amos musicista e performer, quella che ci mette tutto, il contenuto, la forma, la cura per un’immagine coordinata estremamente coerente, fino alla cinquantina suonata, fino a “Unrepentant Geraldines” (13 maggio 2014, Mercury Classics) e all’ennesimo tour di ottanta date, che penso: “Al diavolo gli impegni, c’è pure il sole, vado a stringerle la mano!”.
Martedì 3 giugno, ore 15, uscita di servizio del Teatro Nazionale di Milano, seconda delle tre tappe del tour italiano con cui Tori ha toccato anche Roma e Padova, una cinquantina di persone fa capannello aspettando di incontrare l’artista nel consueto meet & greet pre concerto. Si chiacchiera, ci si scambiano opinioni sugli album e le canzoni preferite, ricordi di concerti e incontri con l’artista ed è lì che capisco una cosa fondamentale: “Love is in the air”. Tori esce, nessuno spinge nessuno, nessuno scavalla la fila, nessuno ignora le indicazioni date dallo staff perché la cosa si svolga senza sbattimenti per entrambe le parti, lei è serena, noi pure, c’è rispetto. Per un’ora secca, ci abbraccia uno ad uno, ascolta, parla con noi, si annota tutte le richieste su un foglio, riceve pure parecchi regali e alla fine se ne va, lasciando nell’aria una strana elettricità, c’è come l’impressione che per Milano qualcosa di speciale stia bollendo in pentola.
Ore 18. Su Facebook spunta una foto dal commento galvanizzante: “At soundcheck in Milan, looking forward to tonight’s show”. È lei, Tori, è carica e tiene a farcelo sapere, un unicum nello storico delle selfies con cui sta documentando il tour!
Ore 21. Il Nazionale è quasi pieno e tale rimarrà, non avendo Tori piazzato il sold out, a gran sorpresa. Sul palco tutto è pronto, il Bösendorfer troneggia accompagnato da una tastiera che nella seconda parte dello show lascerà il posto ad un organo Hammond. Passa una decina di minuti, il tempo di fare accomodare i ritardatari, attesa piacevolmente accompagnata da una raccolta dei suoi prefe, i Led Zeppelin, ed è sul languido intro di “Since I’ve Been Loving You” che le luci si abbassano e Tori fa capolino sul palco. Ovazione generale. Nemmeno il tempo di realizzare ed eccola lì che cavalca lo sgabello tra i due strumenti, schiaffeggiando le ottave basse del Bösendorfer su una versione particolarmente energica di “Parasol”, che sintonizza la sala sulla giusta frequenza.
Sarebbe lecito aspettarsi una setlist basata per lo più su pezzi tratti dal nuovo “Unrepentant Geraldines”, ma come in tutte le date di questo tour le “ragazze” (così Tori chiama le sue creature) arrivano a fiotti da tutte le epoche di una carriera alla quale la cantautrice e pianista statunitense guarda oggi senza ripensamenti: “unrepentant”. Segue “Space Dog”, dall’album del ’94 “Under the Pink”, in un arrangiamento interessante che, alternando l’utilizzo del piano elettrico a quello del pianoforte, smussa la spigolosità ritmica del brano, esaltandone la portata melodica. La prima di tante soluzioni intelligenti, grazie alle quali la Amos è riuscita ancora una volta ad attualizzare il repertorio più datato di una carriera ormai ultraventennale, portandolo, all’occorrenza, in linea con le sonorità della sua produzione attuale.
A proposito di brani storici, tempo due pezzi e alla porta si presenta un’ospite inattesa: «Scusate, avrei una scaletta da seguire – dice Tori – ma c’è una canzone che mi sta chiedendo di essere suonata» e attacca “Silent All These Years”. Un tuffo nel passato, che precede una tripletta di pezzi da novanta costituita da “Black Dove”, “Cooling” e “Concertina”, che incolla la platea alle poltrone pur resa in una veste minimale, con la voce appoggiata su un arpeggio di piano e piano elettrico, suonati contemporaneamente nella caratteristica posa “aperta” della Amos. Due pezzi tratti dal nuovo lavoro precedono la chiusura della prima parte di spettacolo con il delicato lirismo di “Your Cloud: Wild Way”, sempre in deroga alla scaletta e “Forest Of Glass”, pezzo incluso nella edizione deluxe di “Unrepentant Geraldines”, consacrano l’atmosfera introspettiva e fortemente narrativa di questa prima fase del live, che si protrarrà anche nel “Lizard Lounge”, la sezione tradizionalmente dedicata alle cover su richiesta (questa volta “Somewhere Over the Rainbow” e “Time”, pezzo di Tom Waits, già reinterpretato da Tori nell’album di cover del 2001 “Strange Little Girls”).
“Not the Red Baron”, tratto da uno dei lavori più apprezzati della Amos, il suo terzo, Boys For Pele”, che la consacrò presso pubblico e critica, per tono fa da trait d’union tra la prima e la seconda parte di concerto, nella quale si entra a pieno regime con “The Power of Orange Knikers”, “Another Girl’s Paradise” e “In the Springtime of His Voodoo”, anche questa proposta in un nuovo arrangiamento, che affida all’organetto Hammond, sostituendolo al piano, l’aspetto più propriamente blues di un pezzo dalla struttura tutt’altro che lineare. E a proposito di pezzacci, in chiusura, prima dell’encore, arriva anche “Cornflake Girl” con la gente, che come di consueto, abbandona i posti riversandosi sotto il palco. “Take To the Sky”, un b-side dell’epoca “Little Earthquakes”, prolunga nell’encore il mood danzereccio instauratosi con “Cornflake Girl”. Prima della fine, però, c’è ancora spazio per due pezzi: “16 Shades Of Blue”, dal nuovo lavoro, e “1000 Oceans”, che chiude riportando le frequenze del live verso i toni intimi e confessionali che caratterizzano gran parte della produzione di Tori Amos.
Ore 23:20. Tori posta la scaletta e commenta “Killer Setlist in Milano!”. Assassina si! Intensa, ben strutturata e suonata senza sbavature, in barba alla cinquantina e, come canta in “16 Shades of Blue”, a «quelli che dicono che sono ormai troppo vecchia per suonare». Rispetto!
Cinzia Meroni
[youtube uXVjWTxvYVQ nolink]