Due facce della stessa medaglia, due sfaccettature dello stesso diamante. Il 18 settembre 2019, al Santeria Social Club di Milano, si è svolta la serata dedicata alle sonorità post-(metal, rock, hardcore), grazie alle esibizioni di Touché Amoré e Deafheaven. Ma prima di loro, è toccato ai texani Portrayal Of Guilt (provenienti come i loro compagni di tour alla scuderia Deathwish, l’etichetta discografica fondata da Jacob Bannon dei Converge) trasportare il pubblico con un hardcore punk sporcato di influenze black metal e grindcore in una dimensione in cui, paradossalmente, emozioni e violenza riescono a convivere in maniera pacifica. Un ossimoro e qualcosa di incomprensibile a chi non mastica il genere, ma una realtà ancora più tangibile in sede live.
Parlando dei Deafheaven, è impossibile non pensare a quanto il loro contribuito nel post-metal e post-rock sia stato fondamentale negli ultimi anni. Anche se profondamente influenzati da storiche band death e black, i Nostri hanno sempre preso le distanze dalla definizione di blackgaze, un sottogenere a cui molti critici sono propensi ad ascriverli. Ma la formazione californiana, come ci ha dichiarato il frontman George Clarke a poche ore dall’inizio dei concerti, rappresenta qualcosa di estremamente più complesso, un mix che proprio perché privo di compromessi, spesso non viene capito né dalla fascia più estrema del pubblico, né da quella più alternative. “Nella nostra band abbiamo tantissime influenze diverse, che tendono a cambiare di album in album. In generale, oltre al metal e al post-rock, abbiamo preso molto dal brit pop. Nell’ultimo periodo i nostri pilastri sono stati Mogwai, Mono, My Bloody Valentine, Oasis, anche roba psichedelica. Ogni disco è un riflesso di ciò che stavamo ascoltando mentre lo componevamo”.
Insomma, la proposta dei Deafheaven non è per tutti, ma dalla risposta dei presenti (per lo più giovani e giovanissimi, con poche eccezioni oltre i trent’anni) possiamo affermare con fermezza che i Nostri abbiano fatto centro ancora una volta. Complice anche un full-length, “Ordinary Corrupt Human Love” (2018) che è stato protagonista in scaletta, e che nonostante una gestazione non del tutto semplice, ha portato con il tempo grandi soddisfazioni ai Nostri. “Ha trovato finalmente il suo posto nella nostra discografia ed è diventato parte di noi. È stato un album molto difficile da realizzare, ci siamo presi parecchi rischi, ma vedere quanto la gente abbia apprezzato, è stato un bel regalo per noi, il migliore”. E Clarke rincara la dose: “Sono in molti a dirci che “Ordinary Corrupt Human Love” sia il nostro lavoro più cinematico, più sperimentale, più incline per certi versi al “pop”. Di certo non ci siamo posti limiti e abbiamo accolto nuove idee, qualsiasi esse fossero, nuove influenze, per continuare a evolvere come band. L’importante, per chi suona in primis, è non annoiarsi. Dobbiamo sempre avere un interesse altissimo in quello che facciamo, altrimenti non iniziamo neanche a pensarci”.
Tra i pezzi presenti in setlist estratti da “Ordinary Corrupt Human Love”, “Worthless Animal” ha un ruolo speciale, sia nel cuore del combo che in quello dei fan, che hanno imparato ad apprezzare una nuova sfumatura della proposta dei Deafheaven. “La mia canzone preferita, sia su disco che da suonare dal vivo, è “Worthless Animal””. In effetti, l’esecuzione di questo brano è stato uno degli highlights della serata, con un Clarke in stato di grazia, ancora più ipnotico nelle sue movenze e nella sua presenza scenica. “Mi piace troppo il testo, fin dall’inizio, perché è stato il primo singolo e mi ricordo la fatica che abbiamo fatto a lavorarci in studio, ma siamo troppo contenti del risultato finale. Quando suoniamo mi piace molto sia la parte più rock e riflessiva, che quella ispirata al black/death metal”.
Concentrandosi sul lato più aggressivo dei Deafheaven, “Black Brick”, brano inedito della band californiana, è stato sicuramente uno dei momenti più violenti dello show. “Si tratta di una b-side, in origine doveva finire in “OCHL”, ma era troppo heavy. In generale ci piace comporre pezzi così, non so se sarà la nostra direzione futura, ma siamo molto contenti di avere questo tipo di influenze nella nostra storia, ed è una canzone molto divertente da suonare live, una vera e propria “bruiser””.
A un concerto dei Deafheaven però, non è raro vedere fan che tra un circle pit e l’altro si commuovono, o altri ancora che appena dopo un pogo sfrenato, si lasciano cullare come ipnotizzati dalla musica. Sono proprio le emozioni il fiore all’occhiello dei Nostri, non solo le vibrazioni malinconiche che emanano dalle chitarre di Kerry McCoy e Shiv Mehra, ma anche dai testi di George Clarke, ricchi di riferimenti alla psiche umana e ai suoi problemi, oltre che alla letteratura inglese. Shakespeare rimane uno dei bacini di idee più saccheggiati dal vocalist (a partire dal nome stesso della band, che deriva da un sonetto del Bardo, e a detta di Clarke significa “urlare a Dio e non ricevere nulla in risposta”), e anche se è molto difficile interpretare lo screaming del cantante, il senso più puro e profondo delle emozioni e dei sentimenti riesce comunque a trapelare, parafrasando un’immagine molto potente utilizzata dal critico James MacMahon riguardo la musica dei Deafheaven, “come un fiore che cresce dalle crepe dell’asfalto”.
È proprio la dimensione live il momento migliore per esprimere una proposta per molti versi ostica, ma che una volta oltrepassata la cortina di smarrimento, riesce a rinnovare lo spirito, sia di chi suona che di chi assiste. “Quando componiamo, non ci concentriamo tanto sulla catarsi ma siamo molto più focalizzati sul lato tecnico della questione. Il nostro obiettivo primario è di usare la musica come una spinta emozionale, provare una sorta di trascendenza. È quando suoniamo dal vivo però che tutto questo salta fuori, in un’opera di catarsi. È sul palco che siamo più connessi emotivamente alle canzoni che suoniamo, e sentiamo che è lo stesso anche per il pubblico”.
La presenza in setlist di “Sunbather”, disco del 2013 che ha fatto conoscere i Deafheaven su una scala globale, è immancabile, e spetta proprio alla conosciutissima “Dream House” chiudere lo show dei Nostri nel migliore dei modi. A proposito di “Sunbather”, abbiamo discusso con Clarke di alcuni sostenitori di eccezione di questo album e di cosa rappresenta, ovvero i Biffy Clyro, che hanno dichiarato più volte quanto l’opera dei Deafheaven sia stata una delle influenze chiave per la loro ultima fatica discografica, “Ellipsis”. “Non abbiamo mai parlato personalmente con loro, ma penso che sia una cosa molto bella. Non hai mai la percezione assoluta di come e quanto la tua musica venga sentita all’esterno. Sapere che il nostro messaggio non solo viene capito, ma c’è anche tantissima gente che vi si immedesima e che ne prende spunto, ci fa realizzare che stiamo facendo la cosa giusta. E poi, devo essere onesto, in questo modo la nostra musica ha raggiunto un audience molto più vasta, quindi davvero, grazie Biffy Clyro”.
Come anticipato qualche riga sopra, nella fortunata e ormai quasi decennale carriera dei Deafheaven, i momenti più speciali, in cui i Nostri riescono davvero a sentirsi se stessi, sono i live, ancor più che altri traguardi professionali. “Con il senno di poi, molti dei punti bassi non ci sembrano poi così bassi. Abbiamo avuto le nostre belle difficoltà, tipo la vecchia formazione che si scioglie, gente che se ne va dal gruppo, dubbi esistenziali sul futuro, problemi economici. Ma ora penso che siano dolori che ci abbiano aiutato a crescere, un catalizzatore per ciò che avremmo fatto qualche anno più tardi. Di punti alti ce ne sono stati molti e continuano ad esserci, come quando suoniamo con e incontriamo le band che ci piacciono come Slowdive, Immortal, Emperor, Mogwai. E anche essere nominati a premi musicali è stato surreale. Ma per me, i punti più alti della mia carriera, nel loro senso più puro, è quando suoniamo dal vivo. È il test ideale per provare che il nostro lavoro non solo è valso la pena, ma è stato capito e apprezzato, che c’è una connessione col pubblico. Che sia un grande show a New York, piuttosto che un piccolo set nella nostra città natale, questi sono i momenti che mi rendono più orgoglioso in assoluto. Quindi anche stasera sarà un punto alto, i fan italiani sono molto appassionati e completamente matti, in senso buono”.
Come se non bastasse, nemmeno il tempo di riprendersi dalla bordata emozionale dei Deafheaven, che i Touché Amoré salgono sul palco in sordina, e iniziano senza troppi complimenti un set incendiario, durante il quale il pubblico, seguendo la tradizione (post-)hardcore, si lancia spesso e volentieri in crowdsurfing selvaggi, prendendo a forza il microfono che il vocalist Jeremy Bolm tende verso le prime file. E in effetti, è impossibile rimanere immobili e non cantare insieme alla band, dato che la scaletta è incentrata su “…To the Beat of a Dead Horse”, l’album di esordio dei californiani che proprio quest’anno festeggia il decennale dalla pubblicazione (e per l’occasione, è stato anche re-inciso in toto, e pubblicato con il nome di “Dead Horse X”).
La sensazione che i Touché Amoré lasciano durante i loro show è quella di non avere neanche un minuto da perdere, un’urgenza che deve essere condivisa con un’audience fedele e preparata, che conosce a memoria sia i pezzi che hanno fatto la storia della formazione, come “Honest Sleep” o “History Reshits Itself”, che i brani più recenti dei Nostri (vedi “Just Exist”, estratto da Is Survived By del 2013 o “Flowers and You”, singolo del 2016 contenuto in “Stage Four”). Una cosa è certa: serate come quella del 18 settembre scorso, oltre a fare bene a livello personale, fanno rifiorire un cauto ottimismo nei confronti della musica, quella suonata, studiata e sudata, che non potrà mai sostituirsi ad altre tipologie, magari più semplici a livello di realizzazione e fruizione, ma non oneste e reali allo stesso modo.
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