Milano, Italia, primo luglio. Per la serata, guarda caso, si prevedono tuoni e fulmini e invece ciccia, il tempo regge e noi ci godiamo il dittico al fulmicotone Wolfmother + Deap Vally, che, fortuna vuole, si incrocino proprio per l’occasione sul palco del Magnolia.
Ecco, chi fosse arrivato con la condivisibilissima ambizione di farsi spettinare da una buona e giusta dose di decibel sarà rimasto un po’ deluso dai volumi decisamente contenuti, che così poco si addicono ad un evento rock come questo, del quale, tuttavia, non sono riusciti a guastare il buon esito, sia per il calibro degli artisti in questione, sia perché, si sa, quando suona del buon r’n’r e c’è da fare casino, da queste parti non ci si tira indietro.
Puntualissime sul palco le Deap Vally. Cuore infranto per il duo californiano – quello dell’artwork del loro primo e per ora unico album, “Sixtrionix” (giugno 2013, Island), campeggia alle loro spalle, unico elemento scenico della serata -, che alle 20.30 attacca con “Baby I Call Hell” un set che durerà poco meno di un’ora. Le avevamo già viste l’estate scorsa, sempre su questo palco, e già allora Lindsey Troy (voce e chitarra) e Julie Edwards (voce e batteria) avevano destato un’ottima impressione. L’approccio grintoso e per nulla sostenuto, il sound grezzo, distorto e senza fronzoli sono il marchio di fabbrica delle Deap Vally e “Gonna Make My Own Money”, “Lies”, il bluesettone sporco e strisciante “Six Feet Under”, “Raw Material”, “Walk Of Shame” suonate veloci e “End Of The World” in chiusura, il loro vessillo. Insomma, Lindsey e Julie usano bene il loro tempo e se ne vanno tra l’ovazione generale; noi godiamo e scalpitiamo per del nuovo materiale.
Breve cambio palco, l’atmosfera è calda e goliardica quanto basta. Dal parterre, già abbastanza pieno durante l’esibizione delle Deap Vally e ormai gremito, partono applausi anche per il tecnico che effettua la prova microfono. Ci siamo. Alle 22 in punto Andrew Stockdale sale sul palco accompagnato da Ian Peres, basso e tastiere già in “Cosmic Egg”, e Vin Steele, alla chitarra dal 2012 e ora alla batteria; questa la line up dopo l’ennesimo scioglimento e reunion.
A differenza delle gentili donzelle che li hanno preceduti sul palco, Stockdale e soci un album nuovo ce l’hanno, quel “New Crown” totalmente autoprodotto e disponibile dallo scorso 23 marzo esclusivamente su Bandcamp, un album effettivamente non esaltante sul versante della produzione, ma denso di bei riffoni dal sapore classico, se vogliamo un po’ meno originale rispetto ai primi due lavori della band, ma comunque dotato di una sua solidità. La scaletta, tuttavia, si dividerà piuttosto equamente tra i tre album pubblicati dalla band dal 2005 ad oggi.
Già dall’attacco con “Dimension” è subito chiara l’aria che tirerà, con il pogo che vorticoso si impadronisce interamente dei primi quindici metri di parterre, e “New Moon Rising”, secondo pezzo in scaletta, scalda ulteriormente gli animi introducendo alle ritmiche veloci di “Woman”: il pezzo dovrebbe spazzare via tutto, ma l’esecuzione riesce inspiegabilmente molle, la gente si agita ugualmente, ma era lecito attendersi qualcosa di più dal pezzo con cui i Wolfmother fecero a loro tempo il botto. “I Ain’t Got No”, primo pezzo in scaletta tratto dal nuovo lavoro, nonostante la partecipazione del pubblico (non c’è ritornello che non venga cantato all’unanimità), risulta un tantino piatta, prolungando la parentesi “bassa” apertasi con “Woman”. A risollevare le sorti dello show, introdotta da un preambolo strumentale, arriva “White Unicorn”: riff massiccio, derive psichedeliche, con tanto di citazione dell’intro di Rhodes di “Riders On The Storm” affidato alla chitarra di Stockdale nel bridge e “we could live together”, anche il pogo diventa amorevole.
Bella solida anche “How Many Times” dal nuovo “New Crown”, ma la sensazione è che i pezzi forti di questo live continuino ad essere quelli tratti dai primi due lavori. “Apple Tree”, “California Queen” e “Mind’s Eye”, folle crescendo, dall’intro strappa budella all’esplosione del finale, agitano il parterre come non riescono a fare le pur ben riuscite “Heavy Weight”, “New Crown” e “Tall Ships”, uno dei pezzi più belli del nuovo album, con quel riff neanche troppo vagamente alla Black Sabbath, buon cibo per noi rockettari, e un gioco interno di dinamiche che la rendono particolarmente appetibile, sicuramente più della bizzarra “Feelings”, che nemmeno pare un pezzo della band australiana. Sono in buona Stockdale e soci e prima di lasciarci a sonni meritati e tranquilli, sparano un poker di pezzi dal primo album: “Lovetrain” e “Vagabond” sono una festa nella festa e “Colossal” è la bomba a cui può seguire soltanto il massiccio folleggiare di un pezzo come “Jocker And The Thief”, suonato come unico encore.
Che dire, Stockdale non sarà l’individuo più lineare ed equilibrato del pianeta, come le vicende degli ultimi anni testimoniano, ma una cosa è certa, i Wolfmother dal vivo lasciano sempre il segno.