I Wolfmother sono stati una delle rivelazioni discografiche di questo 2006, per lo meno per gli amanti dell’hard rock vecchio stile, soprattutto di gruppi come Black Sabbath o Led Zeppelin. A tutto il clamore suscitato dalla loro prima uscita discografica mancava ancora la consacrazione della sede live, che fortunatamente non è venuta a mancare. Un Rolling Stone davvero gremito (forse sarebbe servita una sede più appropriata) accoglie il trio australiano con un immenso boato, dopo essersi fatto intrattenere per una mezz’ora dagli ottimi e italianissimi Mojomatics. Una delle caratteristiche più sorprendenti del gruppo è la potentissima sezione ritmica, composta da Chris Ross al basso e da Myles Hesket alla batteria, che si dimostra impeccabile fin dall’inizio. In particolare Hesket è scatenato, picchia fin dall’inizio in modo forsennato sulla sua batteria tanto che risulta essere un piacere anche per gli occhi e non solo per l’udito. E’ quando sale però sul palco Andrew Stockdale che il pubblico perde completamente il controllo ed ha inizio il vero show. Stockdale, baffi neri e movenze che citano vari rocker anni settanta, si contorce e si muove in continuazione incitando il pubblico, che di certo non ha bisogno di essere scosso. “Dimension” apre le danze e dimostra quanto questi tre ragazzi non siano un fenomeno montato a tavolino, ma un gruppo di spessore. Da qui in poi il gruppo eseguirà tutte le canzoni dell’album d’esordio, anche se farcite da improvvisazioni ed assoli lunghissimi (forse troppo?) che portano lo show a concludersi dopo quasi due ore, anche se l’album dura soltanto quarantacinque minuti. Se gruppi come i Deep Purple hanno fatto dell’improvvisazione la loro fortuna, nel caso dei Wolfmother questa componente sembra troppo accentuata, tanto da risultare in taluni casi eccessiva. Questa, insieme alla solita pessima acustica del Rolling Stone, è forse l’unica pecca di una serata che ci consegna un grande gruppo, sul quale puntare sicuramente per il futuro.
L.G.