Più che al classico mondo del cantautorato, Tim Buckley sembrerebbe appartenere di diritto alla schiera dei geniali sobillatori iconoclasti al pari di Captain Beefheart e Frank Zappa (e “Blue Afternoon” esce proprio per la Straight, neonata etichetta di quest’ultimo). Il suo particolarissimo uso della voce, sublime ma anche snervante a volte nel suo far vibrare le note quasi all’infinito, farebbe propendere per la seconda ipotesi. Non fosse che le sue canzoni sono sempre confessioni intime e delicate, sgorgate da un animo afflitto dal mal di vivere e corroso dalla droga. A cui sembra interessar poco rivoluzionare il mondo della musica, molto di più estendere nel suono la malinconia che non gli dà scampo. “Blue Afternoon” è uno dei dischi più dolenti di Buckley, intriso di torpore psichedelico che fa da sfondo a ballate chiaroscurali e lancinanti scatti vocali. Da immortalare per sempre il trittico finale, composto da “Cafe”, “Blue Melody” e “The Train”.
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