Proviene da San Francisco una delle band più sottovalutate di sempre. I Chrome del chitarrista Helios Creed e del polistrumentista Damon Edge recuperano l’eredità acid rock della loro città, quella che a fine anni Sessanta partorì Grateful Dead, Jefferson Airplane e simili, la disintegrano attraverso il garage rock di Stooges ed MC5 e, non soddisfatti, smembrano i resti del cadavere a colpi di elettronica invasiva, industrial belluino e scariche noise rock. “Alien Soundtracks“, loro secondo disco, porta a maturazione un sound che qualcuno, azzeccandoci in pieno, ha paragonato a quello degli “Stooges che suonano i Can nel cyberspazio“. E dai monitor della loro navicella provengono immagini distorte e abominevoli, in cui il garage punk più velenoso vien corrotto da assoli di chitarra degni di un Jimi Hendrix alieno (“Chromosome Damage”), il rumorismo industriale si scontra con collage sonori alla Frank Zappa (le voci preregistrate di “The Monitors” e il delirio kraut – freak di “Magnetic Dwarf Reptile”), gli Hawkwind sono riletti tramite l’estetica new wave (il viaggio nel vuoto cosmico di “All Data Lost”) ed infine sul ritmo ipnotico di una drum machine il chitarrismo di Creed ha modo di librarsi in una perlustrazione dello spazio più profondo (lo strumentale “Nova Feedback”, forse l’episodio più fascinoso dell’album). Si potrebbe citare ogni singola traccia delle dieci che vanno a comporre l’opera, tuttavia qui basterà ribadire l’eccezionale originalità del gruppo, unico nella storia del rock in grado di offrire una perfetta sintesi fra sperimentazione psichedelica, aggressione punk e cinismo post industriale. Una formula che i Chrome porteranno alle estreme conseguenze nel successore di “Alien Soundtracks”.
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