La capacità di reinvenzione di Fabrizio De André è unica nel panorama cantautorale del nostro paese. Il precedente album omonimo, conosciuto anche come “L’indiano” per via della copertina, mostrava inedite sfumature blues rock ed etniche. Per “Crêuza de mä” Fabrizio sceglie quest’ultima strada e, con il fondamentale aiuto di Mauro Pagani, scrive quello che è forse il più grande disco italiano della storia. Cantate interamente in lingua genovese, le sette canzoni dell’LP non presentano alcun difetto, e rappresentano una vivificante immersione nelle acque del Mediterraneo, nelle sue fragranze e tradizioni. Un profluvio di strumenti etnici, dalla darabouka all’oud, dal bouzouki al saz, accompagnano la voce di Faber, che pure cantando in dialetto non dimentica i temi a lui più cari: la vibrante “Sidún” parla delle atrocità della guerra (lo fa in un modo che non trova paragoni, privo della benché minima retorica), “Â pittima” e “Â duménega” sono riuscitissimi attacchi anarchici ai comuni benpensanti, “Jamín-a” un potente sguardo sull’erotismo primigenio, “Sinàn Capudàn Pascià” trae spunto da fatti storici per elevarsi a parabola universale sulla natura umana, mentre la title – track e “D’ä mê riva”, rispettivamente, aprono e chiudono l’opera all’insegna dell’intimismo e di sentimenti quasi immemorabili. Gli arrangiamenti sono perfetti, ogni particolare curato sin nel minimo dettaglio. Capolavoro assoluto, che riceve persino le lodi (meritatissime) di David Byrne. L’unico suo ‘difetto’ è la durata: appena 33 minuti, quando se ne vorrebbero almeno il doppio.
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