Nell’89 chi ebbe modo di ascoltare “Pretty Hate Machine“, esordio dei Nine Inch Nails, poté avere un assaggio di futuro. Fra tutti i dischi che mischiavano rock ed elettronica, questo era il più composito, intrigante, di ampio respiro. Se i Ministry basavano la loro musica sulla frenesia e i Godflesh sull’alienazione, Trent Reznor (i NIN sono sempre stati la sua creatura quasi esclusiva) trasponeva in note l’intera gamma dei suoi sentimenti, dall’amore alla disperazione alla rabbia passando per vari stati di nevrosi. In quest’album la vastità stilistica è impressionante: si va dall’assalto industrial metal di “Head Like A Hole” all’intro synth – pop di “Down In It”, dal funk androide accoppiato con l’ambient infestato da cori gregoriani di “Sanctified” alla danza techno che conclude “Ringfinger”. Nel mezzo, il colpo del genio visionario: “Something I Can Never Have”, ballad pianistica lasciata a macerare nelle ombre del più puro sconforto. Cresciuto a pane e Throbbing Gristle, Reznor ha saputo nutrirsi di alcuni fra i più disparati segnali sonori degli anni Ottanta: la darkwave, il punk e l’hardcore, il metal, oltre ovviamente a tutte le mutazioni che hanno cambiato il volto della musica fatta col sintetizzatore. E nella decade successiva farà altrettanto.
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