Ultimo giro di giostra per i My Bloody Valentine, che giunti al secondo album concepiscono il loro capolavoro, nonché opera massima dell’intera scena shoegaze. Per dare un successore a “Loveless” Kevin Shields, Bilinda Butcher, Debbie Googe e Colm Ó Cíosóig impiegheranno 22 anni. Probabilmente lo stesso Shields era consapevole di aver raggiunto un punto di non ritorno scrivendo queste 11 canzoni. In cui tutto è perfetto, dalla produzione volutamente confusa e nebbiosa (son serviti 18 ingegneri del suono per sistemarla) agli intrecci fra le melodie delle tenui voci di Bilinda e Kevin e il frastuono del feedback delle loro chitarre. Ancora adesso, la definizione più azzeccata per descrivere le volute sonore di “Loveless” rimane quella di “Pet Sounds che incontra Metal Machine Music”; altrimenti, senza prendere ad esempio i Beach Boys e Lou Reed, si potrebbe utilizzare il paradosso dei Beatles riscritti dai Velvet Underground. Sempre lì si andrebbe a parare; il rock più distorto e urticante che abbraccia il pop più lieve e malinconico. Una magia messa in pratica da molti altri, ma che nei My Bloody Valentine trova la sua espressione definitiva.
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