Un passo oltre Aphex Twin. Il duo elettronico inglese degli Autechre pubblica questo esordio su lunghissima distanza (ben 78 minuti) proprio per l’etichetta per cui incide anche Richard D. James, la Warp Records. E “Incunabula“, settimo album della serie “Artificial Intelligence“, pare proprio provenire da un “time warp”, un varco spaziotemporale che scaraventa nel 1993 musiche che a distanza di vent’anni sembrano pensate domani. Il suono racchiuso nel cd viene definito ambient techno o IDM, etichette che limitano terribilmente la preveggenza e la capacità di destabilizzazione che possiede “Incunabula”: certo c’è l’influenza di Eno, e via in linea retta temporale dei Throbbing Gristle, della techno di Detroit e Derrick May, di Aphex Twin e di tutti i predecessori della collana dell’Intelligenza Artificiale. Ma c’è molto di più. “Basscadet”, la traccia più conosciuta, è l’unica che con un po’ di fantasia potrebbe riallacciarsi alle pulsazioni ballabili che generarono l’electro degli Ottanta. Per il resto le composizioni di Rob Brown e Sean Booth non hanno nulla di fisico, essendo pure luminescenze mentali che tramite lo sfasamento di minimalismo ambient e techno illusoria sanno predire alcuni gironi infernali del Terzo Millennio. L’autismo da social network, i dispositivi elettronico/virtuali come unici riferimenti per intessere relazioni fra umani, sono già tutti qua; nell’introversa parodia jazz di “Autriche”, negli squarci alieni di “Bike” e “Eggshell”, nel cosmo sterile di “Windwind”. Senza violenza alcuna, “Incunabula” sa essere sottilissimo e inquietante.
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